C
 
UBAnews
 
rRIVISTA TELEMATICA MENSILE A CURA DI GIOIA MINUTI
AVVENIMENTI

 

 

 

L’Europa come l’America latina degli anni 80-90

Il Vecchio Continente alle prese con deficit statali e misure di austerità “anticrisi”

 

di Andrea Necciai

 

Da un po’ di tempo alcuni analisti economici hanno cominciato a parlare di “latinoamericanizzazione” dell’Europa. Il riferimento è al programma di risanamento dell’Unione Europea, basato su un pacchetto di riforme di stampo liberista atte a contrastare l’attuale crisi economica. Si tratta, in realtà, di un déjà-vu di deregolamentazione, misure di aggiustamento strutturale e tagli allo stato sociale che rievoca il dramma dell’America latina degli anni ottanta e novanta: un intero continente sottomesso al FMI, al “Consenso di Washington” e al suo capitalismo cannibale.

Per comprendere appieno l’origine di questa crisi economica, occorre fare un passo indietro agli anni dell’esplosione negli Stati Uniti delle bolle speculative, quelle che hanno messo in ginocchio l’intero sistema finanziario internazionale. La deregulation applicata a questo settore, che aveva già evidenziato nel corso degli anni un enorme flusso di speculazione sfrenata, ha prodotto come conseguenza un’invasione di “titoli spazzatura”. Sono stati questi fondi il detonatore della crisi del 2008, nel momento in cui negli Usa molti contraenti non sono più riusciti a pagare le rate dei prestiti e dei mutui. E solo a quel punto tutti hanno tentato di disfarsi al più presto dei “titoli spazzatura”: una massa di prodotti finanziari che fino a poco tempo prima erano stati valutati come “sicuri” dalle agenzie di rating, ma che ancora oggi circolano per le Borse come mine vaganti “intossicando” il sistema finanziario.

Le banche salve, gli Stati in pericolo.

Una volta scoppiato il cataclisma conseguente al crollo delle Borse, i governi e le banche centrali - in Europa come negli Usa - si sono precipitati al capezzale delle banche e dei moribondi enti finanziari e, a furia di iniezioni di milioni di euro e di dollari pubblici, ne hanno scongiurato la bancarotta (ma chissà per quanto tempo ancora). Sorte peraltro già toccata a decine di istituti di credito dall’inizio della crisi.

Però ora, sono gli Stati a rischiare il fallimento. Lo stallo economico derivante dalla crisi finanziaria ha fatto diminuire le entrate statali (flessione del gettito fiscale) e ha - viceversa - enormemente aumentato la spesa pubblica, a causa della disoccupazione dilagante e dell’attuazione delle riforme per la riattivazione dell’economia. Da qui il deficit strutturale che ha ridotto sul lastrico la Grecia e ha messo nei guai altre nazioni europee ad alto indebitamento, come il Portogallo, l’Irlanda, la Spagna e - non ultima - la nostra Italia. Su tutte si moltiplicano le voci di “rischio default”.

Di fronte alla seria minaccia di bancarotta di interi Stati europei, le grandi istituzioni economico-finanziarie (FMI, Banca Mondiale ed Unione Europea) rispondono con le solite ricette neoliberiste a base di tagli allo stato sociale e di aggiustamenti strutturali: “arnesi” vecchi di decenni che hanno prodotto solo fallimenti e disastri, come nel caso dell’America latina degli anni 80 e 90.

Come in America latina venti anni fa.

Gli “aggiustamenti strutturali” propinati dal Fondo Monetario Internazionale e dalla sorella Banca mondiale nascono, infatti, proprio alla metà degli anni 80, “una risposta per porre rimedio alla prima crisi del debito, in Messico nel 1982. Ricette pure neo-liberiste che includono privatizzazione degli enti pubblici, liberalizzazione dei mercati di capitali, merci e servizi, drastica riduzione delle spese sociali, il tutto per ottenere moneta pregiata e ripagare i pesanti debiti contratti negli anni '60 e '70 e poi schizzati alle stelle dopo la rottura del sistema monetario internazionale voluta dalla Casa bianca. L'America latina è la regione che per prima applica scientificamente le ricette del Fondo, arrivando ad estremi senza paragoni. Sotto la scure del Fondo passano i sistemi sanitari e quelli previdenziali, ma soprattutto si verifica la svendita di proprietà nazionali. Dopo le nuove crisi del debito di inizio anni '90, il controllo dell'inflazione in paesi fragili che devono ancora intraprende un processo di accumulazione e di sviluppo diventa ossessivo, ed il costo del denaro è così alto da non permettere nessun investimento locale, mentre le banche ed i risparmi locali sono tutti ormai sotto il controllo straniero. Emblematico il caso brasiliano degli anni '90, con la moneta ancorata decisamente al dollaro. Si arriva persino alla completa «dollarizzazione» dell'Ecuador alla fine del 1999 con devastanti impatti sociali, e quindi alla crisi Argentina alla fine del 2001, ovvero il paese modello in assoluto del Fondo sotto la presidenza Menem, che collassa poco dopo. […]”*

E adesso, chi paga il conto?

In Europa, dopo il salvataggio di molti istituti di credito con fondi pubblici, sono ora gli Stati nazionali a soffrire forti crisi di indebitamento, le quali hanno, e continueranno ad avere in futuro, drammatiche ripercussioni sulla tenuta del welfare e sul tenore di vita delle popolazioni. Ma la vera questione riguarda, piuttosto, chi dovrà continuare a pagare tutti questi deficit: saranno le banche, le stesse che li hanno generati, oppure - come al solito - i lavoratori e i contribuenti degli Stati membri con i loro sacrifici? La risposta sembra fin troppo scontata.

Per nulla memori dei disastri economico-sociali già provocati in America latina a partire dagli anni 80, i governi della Vecchia Europa, tutti ancora devotissimi al neoliberismo, possono solo promettere ai loro cittadini riforme “lacrime e sangue”, in linea con la regola prima del capitalismo liberista: “privatizzare i profitti e socializzare le perdite”.