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PITTURA

 

 Wifredo Lam: un maestro della pittura universale

“L’ITALIA MI PIACE DA IMPAZZIRE”

 di GUSTAVO BECERRA – Speciale per Siporcuba

 

L’11 settembre scorso si sono compiuti  24 anni dalla morte del più noto dei pittori cubani, Wifredo Lam, di sangue cinese, africano e spagnolo, con lineamenti  asiatici e negri in quest’uomo nel quale si coniugarono in maniera particolare i misteri tutte queste culture

Nato nel villaggio di Sagua la Grande, nella provincia centrale cubana di Santa Clara, l’8  dicembre del 1902 era  figlio di Lam Yam, uno scrivano cinese residente nell’Isola e di Ana Serafina Castilla, una mulatta nelel cui vene scorreva anche sangue indiano.

Oltre all’anziano padre - quando nasce Lam aveva la notevole età di 84 anni- un curioso personaggio esercitò  una poderosa influenza nell’infanzia del pittore. Si tratta della sua madrina, Mantonica Wilson, una “curandera” ( guaritrice) e sacerdotessa della santeria afro-cubana.

Contraddicendo i desideri di questa donna  che sperava per lui un futuro di stregone-guaritore, il giovane fu inviato dalla famiglia all’Avana a studiare diritto. Nello stesso tempo lui sviluppò le sue inclinazioni artistiche nell’Accademia di San Alejandro.

Poco interessato alle  leggi, Lam si concentra nella pittura e, anche se sopporta con  rassegnazione l’accademismo dominante, preferisce disegnare la frondosa vegetazione del giardino botanico al posto dei motivi classici imposti dai maestri.

Il limitato orizzonte culturale dell’Avana  risveglia nell’artista il desiderio di andare in Europa e nel 1923, a 21 anni, s’imbarca per la Spagna.

A Madrid, dove il panorama della pittura ufficiale è appena differente da quello lasciato a Cuba, entra nello studio  Álvarez de Sotomayor, un pittore accademico che dirigeva anche il  Museo del Prado. Nello stesso  tempo frequenta  l’Accademia Libera del paesaggio dell’Alahambra, un centro di riunione di pittori giovani  inquieti e, sopratutto,  visita il Prado, dove le sue preferenze s’inclinano verso le opere di pittori come Brüeghel o Goya.

L’ affinità linguistica e i vincoli affettivi fanno sì che quella che doveva essere una tappa del suo viaggio per Parigi, diviene un soggiorno di quattordici anni.

Il suo impegno con la Spagna lo porta a difendere la causa repubblicana: dopo lo scoppio della Guerra Civile, Lam ha lavorato in una fabbrica di armi, dov’era incaricato d’installare le spolette nelle granate anticarro.

Una malattia intestinale lo obbliga a ricoveraarsi in un sanatorio, dove conosce lo scultore  Manolo Hugué, che saputo del suo se desiderio di andare a Parigi, gli da una presentazione per Pablo Picasso.

Lam, che aveva visto un’esposizione di Picasso a Madrid nel 1936, aveva definito l’esperienza “una vera commozione”.

I due artisti si conoscono nel 1938 a Parigi e la sintonia affettiva viene rafforzata dal rispetto reciproco per i loro lavori. Ricasso lo chiamava  “il mio cugino cubano”, ma la guerra irrompe di nuovo nella vita di Lam.

La sua condizione di mulatto e combattente antifascista fanno temere per la sua integrità e di fronte all’entrata imminente della truppe naziste a Parigi, Lam va al sud, lasciando i suoi lavori in custodia a Picasso.

Dopo un pericoloso viaggio a Marsiglia, città dove incontra una nutrita rappresentazione dell’avanguardia artistica francese che aspettava d’imbarcarsi per varie destinazioni. Lì si relaziona con il circolo dei surrealisti e soprattutto con  André Breton,  affascinato dall’opera pittorica del cubano.

Dopo alcuni mesi a  Marsiglia e in Martinica, Lam ritorna a Cuba nel 1941. Il ritorno nel suo paese è molto amaro: al sentimento di sradicamento provocato da 6 anni di assenza, s’unisce l’indignazione per le lamentevoli condizioni nelle quali si svolge la vita dei cubani e soprattutto quella dei suoi fratelli di razza.

Questo sentimento lo spinge a sviluppare un’attività artistica sulle radici di un popolo che, nella sua opinione, doveva recuperare la sua dignità.

Così le radici autoctone  si fondono con il linguaggio  formale appreso in Europa, per produrre opere importanti come “La jungla” (del 1942-1943), dove  appaiono  i personaggi del Pantheon Yoruba,  che popoleranno gran parte della sua produzione successiva.

“Rivendico come miei antenati gli aborigeni, gli schiavi e i ribelli d’ogni lotta, spagnoli, africani e cinesi, perchè la nostra nazione si è formata grazie a loro”, ha affermato il grande artista.

La sua genialità gli permise d’assimilare le correnti più contemporanee del momento, con gli elementi di un’eredità che gli veniva dalle radici e dalla nascita nell’Isola dei Caraibi e anche con quel che aveva incontrato di più avanzato e contemporaneo nel mondo dell’arte, in Europa occidentale. 

Oltre a parlare della genialità della cultura e dell’arte, si deve parlare anche del profondo umanesimo e della sensibilità di Wilfredo Lam, che è stato un uomo molto umano, come  testimonia tutta la sua vita nella quale ha sofferto ed amato, ha fatto vibrare le fibre più profonde di creatore artista e dell’essere umano, accumulando una serie di esperienze che formeranno, assieme alla pittura, il suo più importante tesoro nella sua lunga vita, di quasi 80 anni.

Chi l’ha conosciuto, ha detto che la sua forma di vedere e vivere la vita escludeva qualsiasi esaltazione del suo ego, anche se era considerato uno dei più grandi maestri della pittura internazionale. 

Nella seconda metà degli anni ’40, Lam alternava la sua residenza tra Cuba, New York e Parigi, città dove andò a vivere dal 1952 al 1954.

Egli trascorreva lunghi periodi a Albissola Mare, un ridente paese italiano della Liguria, dove l’artista danese Asger Jorn, creatore del gruppo Cobra, gli insegnò a lavorare la ceramica.

Si parla molto della sua vita a Madrid e a Parigi e poco di quella in Italia, dove si trasferì dopo l’abbandono della Francia per via della guerra.

Ad Albissola, centro di riunione di molti artisti europei, un pittore italiano molto noto e suo amico, Roberto Crippa, uno degli animatori della vita culturale locale lo aiutò a trovare una casa.

Lam scrisse dell’Italia, dove la sua presenza artistica fu molto profonda, che gli piaceva da impazzire e ancora: “Non sopporto la razionalità francese e anche se intellettualmente non ne posso fare a meno, da un punto di vista umano io preferisco l’Italia”.