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                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

Parte il PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI. UN INTERNAZIONALISMO A SOVRANITA’ LIMITATA ?

(Fumarola-Gemmo: starci, non starci?)

 

 

20/06/2006

 

Da panellati a bertisconidi

La definizione che mi pare più appropriata per le astute saltimbancate di uno che per 13 anni ha lavorato caprioleggiando per demolire quanto di buono era sopravvissuto alla berlusconizzazione del principale partito della sinistra italiana, era il Bertinotti panellato. Sembra che quello di panellarsi, cioè di eseguire il salto acrobatico dalla cattedrale dell’utopia possibile e necessaria agli angiporti  del massacro sociale e alle macellerie delle guerre di sterminio colonialiste, il tutto travestito da laicità e diritti umani, sia un classico dei rivoluzionari all’italiana. Stavo a Paese Sera quando prese a soffiare il turbine del ’68 e seguenti. Chiusero le finestre e le imposte e si rincantucciarono tra le pieghe del Partito di Lotta e di Governo col suo ministro-ombra degli interni, tale Ugo Pecchioli. Il cronista del movimento che, anziché spifferare all’Ufficio Politico della Questura i nomi dei malandrini eversori, si ritrovò fotografato con in mano, al posto della penna, un sasso, fu deontologicamente invitato a desistere e a rientrare nei ranghi, ovvero dietro alle persiane e tra le pieghe suddette. Poi l’inutilmente onesto Berlinguer, cui dedicammo un “be-be-be- Berlinguer” rozzamente pecoreccio, ma assai profetico, si pose sotto l’ombrello della Nato, fece il compromesso storico e fornì in anticipo un alibi ai futuri veltroniani  che avrebbero pronunciato l’undicesimo comandamento: “Meglio i Marines che i tagliatori di teste”, distogliendo scaltramente il colto e l’inclita dalla constatazione che non di due opposte, ma di un’unica fattispecie a stelle e striscie si trattava. In quel mentre, tuttavia, Adriano Sofri iniziò a inserire di prepotenza nel quotidiano da me diretto (“Lotta Continua”) un foglio laico e civilista chiamato “Liberazione” (come poi il fratellastro francese, pure quello di serpeggiante inclinazione sionista) facente capo all’ amicone, Marco Panella, piuttosto Giacinto. All’affacciarsi all’orizzonte di nuove bufere, 1976-1977, Sofri disse di votare PCI e si rifugiò anche lui dietro a battenti repentinamente chiusi. Con lui Liguori, Marcenaro, Pannella (Carlo), Capuozzo, Langer, Ferrara, Franca Fossati, Pace, De Aglio, tutta un’armata di giulivi e ben retribuiti neofiti dell’opposto. Tutti assai destri fantini. Il cavallo rivoluzionario era stramazzato e, come suole, ai cavalli rotti si spara in testa. Ma, sgambettante e nitrente felice, ecco pronto il più confortevole e sicuro tiro a quattro della scuderia Panella-Bonino-Martelli-Craxi, quale a stelle e strisce, quale con la stella di Davide, tutti quanti con la stazione d’arrivo garantita. Tutti panellati e molti, poi, coerentemente, craxiati, berlusconati, margheritati, diessati. Quanto a un’intera generazione incendiatasi in Lotta Continua con cospicui sacrifici di vita e di beni, che, fattasi sfottere, andasse pure a farsi fottere (nell’eroina, o in una tragica stagione di demenziale e manipolata insurrezione). La panellizzazione del bertinottume mi si rivelò progressivamente, tra Belgrado, Ramallah e Baghdad e mi fulminò definitivamente, quando osservato che a Cuba, più che gli “intellettuali dissidenti” di Bertisconi, c’erano terroristi mercenari, fui licenziato su due piedi da “Liberazione”. Visti i panni Dolce e Gabbana che quel foglio ha assunto, gazzettina glbt che inalbera i vessilli del più virulento machofemminismo in carriera, del più aggressivo nonviolentismo islamofobico, dell’accondiscendenza nei confronti di chi mira a giovinetti piuttosto che a padroni e di bastona-pacifisti in nome della “mediazione” sulla guerra all’Afganistan (vedi il raccapricciante Sansonetti nel suo attacco a Giorgio Cremaschi, reo di aver definito discriminante il voto sull’Afganistan, 18/6/06), ben me ne incolse. Mi vengono i brividi a pensare che avrei potuto rimanere sotto lo stesso tetto con un Bertisconi incoronato dall’orripilante Vittorio Emanuele: “Bertinotti si è tenuto benissimo. Berlusconi mi ha detto che lui è il migliore di tutti quelli lì”. Corrispondenza di amorosi sensi.. L’erede Savoia ha tutti i titoli per insignire coloro che apprezza dell’Alto Ordine delle Fetecchie”. Infine, per carità di patria, tralascio la metempsicosi degli equilibristi della sinistrina, il cui passaggio dall’antagonismo rivoluzionario al veltroniano Tsahal non poteva non comportare la cacciata da Radio Città Aperta di chi parlava di nazisionisti.

 

Fumarola-Gemmo, una polemica attorno al come e al perché del PCL.

Alla vigilia della presentazione al mondo, e a coloro che in Rifondazione Comunista berlusconizzata avevano ondeggiato tra l’itterizia e la crisi di nervi (quasi tutti, salvo l’affollata corte del sovrano), del Movimento per il Partito Comunista dei Lavoratori, una polemica assai rappresentativa di questioni importanti in ballo si era dipanata in rete tra i compagni Fumarola e Gemmo. Riassumendo, Francesco Fumarola sosteneva che non è così che si fa una proposta in cui ci si dichiara pronti a raccogliere l’intero, molteplice ed eteroclita universo di quanto a volte rigoglia a volte vivacchia alla sinistra degli istituzionali con falce e martello, che i giochi erano bell’e fatti dal nucleo d’acciaio trotzkista e che, al massimo, si trattava di aderire e salire sul Treno Blindato. Tesi che trovava una certa fondatezza nel fatto che le riunioni preparatorie dell’evento si erano svolte in semiclandestinità, con esclusione di molti antibertinottiani, magari considerati spuri (compreso il sottoscritto, per quel che conta). Eugenio reagiva, invero un po’  piccato, negando quell’assunto e ribadendo aperture e disponibilità. Trattattandosi di due compagni entrambi assai stimati e di sicura onestà intellettuale, lontani sia dalle frange pseudo-rivoluzionarie dei furbetti della sinistrina collocati nel taschino di Veltroni, sia dalle ambiguità di chi, esaltando la categoria dell’equivoco, si definisce “Campo Antimperialista” e onora il pupazzo virtuale Cia Al Zarkawi, è parso doveroso verificare le rispettive posizioni alla prova dei fatti. E questa, invero monumentale, s’è avuta il 18 giugno del 2006 al Cinema Barberini di Roma. Però prima c’era stata una presa di posizione di un gruppetto di seguaci di Ferrando divergenti, nel senso che ribadivano l’opportunità di restare nella combriccola PCR, agonizzante, ma devotissima al culto della governance. E qui dissento da Francesco, che riconosceva dignità, rispettabilità e qualche buona ragione a tali personaggi. Una posizione sulla quale, coerentemente con le qualifiche e i redditi dei dissidenti – sindacalisti, sindaci, dirigenti e funzionari –  infieriva inesorabile l’ombra dell’opportunismo e della difesa delle poltrone consolidate, malamente mascherata dalla confermata fiducia nelle buone intenzioni di Bertinotti. Una posizione, perlopiù, giustificata con l’impegno di “restare a fianco dei lavoratori”, allorché questi ultimi, ahinoi elettori in massa delle destre proprio grazie ai trasformisti alla Bertinotti, stavano a questo PRC impiegatizio e radicalchic, come pinguini al Sahara.

Un Ferrando di lotta e rivoluzione

Sorvolo sugli interventi di ospiti italiani e stranieri, portati da compagni quale il mio amico argentino Jorge Altamira, segretario di un partito (Partido Obrero) che senza alcun dubbio vanta la più valorosa militanza politica dell’Argentina, anche se continuano a fargli difetto masse che restano irrimediabilmente irretite dal peronismo, seppure di sinistra. O come il colorito leader di un gruppo scissosi dal KKE greco che, oltre l’euforico entusiasmo vaticinante la rivoluzione per l’indomani, ci ha lasciato pochi concetti, forse perchè imbrigliato da un eloquio italo-franco-greco di ardua interpretazione. O, ancora come un valido combattente anti-Tav dell’ineguagliabile Val di Susa, comprensibilmente fuggito dal vecchio partito alla vista dell’osceno connubio operato dagli ernestini del PRC con il sindaco torinese Chiamparino, uno a cui la Tav fa l’effetto del Viagra. O, infine, il proclama glbt di un anti-Luxuria non santanchetizzato, Klaus Mondrian, con la sua inquietante prospettiva bioetica di un superamento dei generi che ci rende tutti tutto (salvo, forse, eterosessuali: una minoranza retrò, anche un pochino ributtante). L’introduzione di Franco Grisolia metteva sul piatto i propositi statutari e programmatici, in gran parte condivisibili, della nuova formazione. Di alto livello, poi, l’intervento conclusivo di Marco Ferrando, portato con la solita eloquenza ateniese, una gioia per l’orecchio italofono, e assolutamente condivisibile per tutto quello che ha denunciato della degenerazione bertinottiana e che ha proposto a contrasto al progetto padoaschioppano e irriducibilmente militar-capitalista del governo confindustriale e atlantico. Senza dilungarmi in una rassegna delle tantissime cose buone e giuste dette da Ferrando sui compiti che spettano ai comunisti, sul piano interno e su quello del rifiuto della guerra e della solidarietà alla Resistenza palestino-irachena, invito gli interessati a procurarsi il discorso e studiarselo. Fosse per quell’intervento, sarei felice di vedere tutti, onda su onda, confluire nel nuovo partito o, quanto meno, sostenerlo.

Gli assenti

Senonchè qualche ragione a Francesco Fumarola, pur bistrattato, il primo colpo d’occhio sul palco del evento è sembrato darla. Se il progetto PCL doveva essere la chiamata a raccolta degli esuli, transfughi e non rassegnati, l’allineamento di teste sotto il nuovo grande simbolo con falce e martello non ne dava molto conto. C’erano loro, solo loro, quelli di Progetto Comnista,  e se contributi alla costruzione del PCL di altre scuole di pensiero, non rigorosamente  quartointernazionaliste, erano stati auspicati, bè forse sarà per una fase successiva al consolidamento del familiare zoccolo duro. Per l’intanto l’impressione era che arrivare da rivoli vari per confluire in un grande fiume era cosa vista meno bene che il raccogliersi tutti sotto un unico ombrello. Quell’ombrello.  Eppure qualcuno avrebbe meritato di esserci fin d’ora, che so, del sindacalismo di base, delle tante realtà associative sul territorio, di formazioni politiche magari minute, ma di lunga storia, dei tanti gruppi antiguerra ed antimperialisti. Ma è soprattutto sul tema del tanto ripetuto impegno internazionalista  (“Il proletariato non ha nazione – internazionalismo, rivoluzione”, slogan che conforta noialtri, foglie al vento nel turbine della controrivoluzione, ma non molto percepito molto congruo dai popoli del Terzo Mondo in marcia verso la sovranità, quelli del Patria o muerte!) che l’abbondantemente consolidato esclusivismo ideologico dei creatori del PCL si è confermato, al di là di tutte le aperture annunciate. Molti di noi hanno frequentato negli ultimi anni l’America Latina, da Cuba resistente e assediata, al Venezuela della rivoluzione per il “Socialismo del XXI secolo”, dalla rinascenza indigena con le sue speranze comunitario-socialiste, trionfante  in Bolivia dopo memorabili lotte di massa  antioligarchiche e antimperialiste, alle analoghe tempeste sollevate da popoli fin qui esclusi e dimenticati in  Ecuador e altri paesi. E tutti abbiamo percepito come nel risveglio di quel continente, innescato da Cuba e dal Venezuela, qualcosa di profondo e di strategicamente decisivo stesse crescendo per l’avvenire del genere umano e per la ripresa del discorso dell’emancipazione degli oppressi e degli sfruttati. In situazioni diverse, con formule e metodi innovativi, né liturgici nè ossificati, con una creatività autenticamente rivoluzionaria, necessariamente legata a quel particolare contesto ideologico, politico, sociale, culturale. E tutti ne abbiamo ricavato entusiasmo, forza e fiducia come  non era più successo dai tempi del Vietnam. L’America Latina non è solo piqueteros argentini. L’America latina, come altri popoli prima, non marcia lungo i solchi tracciati dai manuali del trotzkismo. E’ sufficiente questo per guardare con sentimenti tra la sufficienza e l’avversione a tutti coloro che non si attengono rigorosamente a quell’abbecedario? L’America Latina si sta inventando giorno per giorno, ma il suo nemico è il nostro nemico e lo picchia meglio di noi, su questo non ci piove ed è per questo che per noi stiamo con quei popoli e con quei dirigenti, forse con qualche ma, ma sicuramente senza se. .

Rivoluzioni senza titoli di studio?

E allora che, nella presentazione di un nuovo partito, che si vuole fondato sull’infinita capacità  del marxismo e del leninismo di comprendere storie, contesti, diversità, si inneggi con insistenza alla Quarta Internazionale e non si spenda una sola parola su questo autentico tsunami della lotta e del riscatto di un intero continente, l’unico che con ogni ragione può vantarsi di avere masse in movimento, l’unico che sembra porsi tra l’apocalisse borghese, con i suoi mortali colpi di coda, e la vita, questo a me pare un limite indifendibile. Il segno di un già tante volte deplorato, sterile dogmatismo che, tocca dirlo con amarezza, fa torto all’intelligenza e alla generosità di Marco Ferrando e dei suoi compagni. Ricordo un episodio emblematico. Franco Grisolia e io ci trovammo  tempo fa a discutere di Hugo Chavez in una qualche conviviale taverna d’Abruzzo. Accennai alle tante campagne di ricupero dei diritti e della dignità del proletariato urbano e rurale, l’alfabetizzazione vittoriosa,  la sanità per tutti, la casa, i viveri a prezzi giusti garantiti dalla eliminazione dell’intermediazione, le fabbriche espropriate e restituite a Stato e operai, l’esercito di popolo, la denuncia del terrorismo yankee, il fronte antimperialista in fieri e, fondamentale per il continente, la prima, vera riforma agraria che avevo visto attuarsi in una commovente distribuzione di terre a San Carlos, cuore dei llanos  dei terratenientes. E, soprattutto, la forza e la felicità di quel popolo di proletari. L’ottimo Grisolia  mi interruppe con un cenno che diceva “non ti illudere”: ”Guarda che Chavez non è che faccia cose poi tanto strepitose. Non ti fidare. Ha espropriato solo terre improduttive…”  Che sono poi la maggioranza delle terre fertili del paese! Capite? O aboliva dall’oggi al domani tutta la proprietà privata, o poco ci mancava che fosse considerato un arnese della reazione. Ma come si fa, compagni! Non lo sentite su analisi del genere il peso della polvere di pagine invecchiate e sfarinate e, attorno alle vostre pur nobilissime tempie, la stretta dei paraocchi della cavalcatura che sa  percorrere un’unica direzione? Chi ha tenuto duro per 50 anni contro la più feroce aggressione Usa, realizzando, non tutto, ma infinitamente di più di tutti i popoli lì intorno? Chi ha riaperto un discorso rivoluzionario di massa in Asia, tagliando le gambe a un tiranno e imbrigliando i succedanei borghesi? Chi sta raddrizzando la spina dorsale di un popolo che una classe di dirigenti corrotti e collaborazionisti cercava di piegare sotto la ferula degli occupanti? Vi siete mai chiesti perché il colonialismo nel mondo arabo lo abbia sconfitto un movimento di massa guidato dal Baath, dai nasseriani, dai nazionalisti socialisti algerini,  mentre i partiti comunisti, sedicenti marxisti e leninisti, rimasero al palo e, al più, funsero da freno “antiavventurista” alla lotta anticoloniale? Tutti “populisti nazionalisti”, in preoccupante sintonia con le definizioni imperialiste? Forse, cacciando le mani in tasca, troverete dei pesi di piombo. Per qualcuno saranno le tavole della legge, per la storia sono una zavorra paralizzante di nome eurocentrismo.

 

 Questo paese, traumatizzato dalle manomissioni operate da infiniti invasori e dominii, con sulla pelle del corpo e dell’anima il vaiolo della Chiesa, la lebbra  di una mafia che parte da Bolzano e arriva a Trapani, il cancro della massoneria, non ha mai fatto una rivoluzione. L’abbiamo sognata nel Risorgimento, ma Marx era lontano e parlava tedesco. L’abbiamo sfiorata con la Resistenza, ma coloro che avrebbero dovuto e potuto sostenerci nell’ultima occasione del millennio morente, ci hanno sfilato le armi e tagliato la lingua. Siamo da sempre un “volgo disperso che volto non ha”. Vivaio di trasformisti, Berluscotti, Dalemoni, Veltrozemolo e di farabutti, da Costantino a Machiavelli, da Gelli a Moggi, immortali morti viventi. E allora se alle nostre genti qualcuno vuole sollevare la testa, che guardi a chi sul capo porta piume, sombreri, o kefìeh. Hanno fatto di più e meglio. Con la falce e il martello forse non sempre sulle bandiere, ma sicuramente nel cuore, che lo sapessero o no.

 

 

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