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                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

 

CAP ANAMUR, SUDAN, IMPERIALISMO EUROAMERICANO IN AFRICA: COMPLICI, IGNORANTI, UTILI IDIOTI

 

 

03/08/2004

 

 

 

                                                                                “Quel che il popolo americano ha imparato dalla guerra del Golfo è che è molto più facile andare a prendere a calci in culo la gente del Medioriente, che non fare sacrifici per limitare la dipendenza dell’America dal petrolio importato” (James Schlesinger, ministro dell’energia sotto Jimmy Carter, 1992).

 

Posto che la Destra, la borghesia, il capitalismo colonialista e imperialista, fanno il loro mestiere, ideologicamente abbastanza dichiarato e, comunque, autoevidente, la vicenda Cap Anamur-profughi “sudanesi” è da iscriversi a caratteri di granito negli annali delle vergogne della sinistra italiana e europea (non statunitense, né, ovviamente, terzomondiale) e dei suoi mezzi d’informazione, con citazione per particolare ignominia di “manifesto”, tristemente vista la sua tradizionale dignità, e, non sorprendentemente, di “Liberazione”, autoproclamati “giornali comunisti”.

 

A quanto nei primi trenta giorni mi è stato dato di leggere, vedere, rintracciare in rete (ammetto la possibilità di qualche vocina trascurata), siamo stati in 2 (DUE!) del mestiere, tra Germania e Italia, a denunciare un tanto efferato quanto trasparentissimo complotto imperialista contro il più grande paese arabo-africano, giocato sulla pelle, non tanto di 37 robusti e sanissimi giovanotti ghanesi e nigeriani, probabilmente strumenti consapevoli dell’operazione (le loro storie degli “orrori” visti e subiti in un Darfur dove non erano mai stati, le loro sceneggiate nevrotiche, la falsa identità sudanese dichiarata a tutti gli “umanitari”  precipitatisi a bordo), quanto degli autentici disperati che a frotte sfuggono alle sciagure direttamente o indirettamente inflitte dal colonialismo e  dai suoi eredi, mercenari e sodali. I 37 “sudanesi” e i loro padrini tedeschi sono serviti, venuta alla luce la megatruffa, a sputtanare gli autentici fuggiaschi e richiedenti asilo. Per la maggiore agibilità dei Bossi-Fini, Turco-Napoletano e Pisanu. Proprio come, in un’operazione non dissimile, il perugino rossonero Campo Antimperialista, attribuendo patente di resistenti a squalificati e truffaldini personaggi anti-iracheni, da decenni nell’orbita Cia, ha agevolato la criminalizzazione della Resistenza popolare di quel paese e, grazie al protagonismo di arnesi del neonazismo stragista e picchiatore italiano, da decenni nell’orbita dei servizi, la sua identificazione con quel poco di antisemitismo che, tra quelle schiere, rigurgita in Europa, al di là delle provocazioni e mitizzazioni sioniste. Quei due eravamo il sottoscritto e Juergen Elsaesser, già autore del fondamentale “Menzogne di guerra”, opera incontrovertibile di smascheramento dell’aggressione “umanitaria” alla Jugoslavia e, dunque, di svergognamento delle sinistre anche allora conniventi. Meritiamo medaglie? Neanche per sogno. Il nostro è stato il più elementare esercizio del dovere-diritto di cronaca e di analisi che tutti, ma proprio tutti i fatti della vicenda e del suo retroterra storico e politico, consentivano agevolmente, anzi, imponevano.

 

La grandiosità della cosa sta nella diserzione di tutti gli altri. Tutti, proprio tutti, si sono avvolti nei caldi panni dell’indignazione morale e della commozione umanitaria, tralasciando ogni pur minimo studio, ogni più elementare considerazione sia del Sudan, di cui nessuno mostrava di sapere un cazzo, al di là delle decennali balle comboniane, israeliane e imperialiste in genere, né di voler spedire qualcuno a vedere, sia della Cap Anamur e dei suoi rintracciabilissimi trascorsi di provocazione al servizio dell’imperialismo occidentale. A questa cosiddetta “ONG” navigante, “Liberazione”, confermando una vocazione consolidata all’incompetenza e alla subalternità alle fonti del nemico di classe, diretta emanazione della strategia del suo sovrano partitico, non si è addirittura peritata di  dedicare un altamente elogiativo riquadro in neretto intitolato “La nave della speranza – Quando la salvezza viene dal mare: in azione di 25 anni”.

 

Dunque i cronachieri del tabloid cartonato di RC sapevano che 25 anni fa la Cap Anamur era stata protagonista assoluta (10.000 salvataggi e assordanti clamori mediatici) della “tragedia” del boat people vietnamita. Gente che, sollecitata da opportune promesse di bengodi statunitensi ed europei (il modello erano i migranti cubani verso la Florida, attratti da posti, case e privilegi sicuri), tentava di lasciarsi alle spalle un paese devastato e impoverito da vent’anni di carneficine e distruzioni franco-statunitensi e che, a fatica, provava a rimettersi in piedi sotto un embargo non meno micidiale dello stragista “agente orange”alla diossina (a proposito di “armi chimiche in mano a terroristi”). Era con ogni evidenza il tentativo di rivincita contro gli irriducibili comunisti vittoriosi, modello e istigazione rivoluzionaria per le masse del mondo. Ma per “Liberazione”, cioè per Bertinotti e i suoi corifei scribacchini, si trattò di eroismo umanitario, lì come poi in Somalia, Angola, Etiopia, Afghanistan, Cecenia (!), Haiti (!), Iraq(!), Sudan, dove “l’associazione – sempre rimasta indipendente da qualsiasi organo di governo -ancora oggi raccoglie disperati e profughi persi fra i flutti”. La fonte? Un’accurata ricerca in Internet, un’indagine presso compagni tedeschi della cosiddetta “Sinistra Europea”, una domandina ai governi interessati? Macchè, solo ed esclusivamente la stessa “ONG”, nella fattispecie il suo dirigente Bernd Goeken. Affidabilità? Ovvia, l'ha detto la tv…

 

Ricapitoliamo. E basterebbe già. Il 20 giugno – dicono il capo della “ONG”, il tedesco Elias Bierdel, e il suo capitano Stephan Schmidt – i 37, tutti maschi, tutti giovani e gagliardi in piene forze (non s’era mai visto), sarebbero stati pescati a largo di Malta; il 24 la Cap Anamur entra in un porto di Malta dove le toccherebbe, per diritto internazionale, depositare i profughi. Non lo fa, più tardi giustifica la sosta a Malta con un  guasto. Trova che la vicenda susciterebbe maggiori echi  nel mondo se si approdasse in Italia. Gira per altri 5 giorni nel Mediterraneo, stranamente visto che secondo i naviganti e gli “umanitari” che si sono precipitati a bordo (Legambiente, Arci, Acli, Caritas, Emergency, l’oscura Medici Senza Frontiere, la spionistica Reporters Sans Frontieres, l’inquietante ICS “tutto per gli albanesi, niente per i serbi”, parlamentari  sinistri, e tutta la compagnia di giro già fattasi sostegno alle menzogne Nato in Jugoslavia) i profughi sarebbero allo stremo, fisico e psicologico, viste le orrende immagini del “loro” Darfur con stupri, incendi, massacri, rapimenti, che ancora gli sconvolgono corpo e mente ( e qui si sono distinti per Gran Guignol strappasinghiozzi soprattutto qualche padre comboniano e Massimo Serafini, precipitatosi sul posto con la “Goletta Verde”). Il 29 giugno, dopo ben nove giorni di inspiegabile girovagare con i “disperati esausti e a corto di acqua a viveri” (gliene hanno portato da affondare la nave), Bierdel chiede di sbarcare a Lampedusa. Ottiene di attraccare a Porto Empedocle, da un governo italiano perfettamente al corrente dell’imbroglio (e che non mancherà di utilizzarlo contro successivi, autentici profughi), il 12 luglio. Succede ancora un po’ di trambusto attorno all’arresto dell’equipaggio, rapidamente azzerato dall’indignazione umanitaria generale, e all’espulsione dei falsi “sudanesi”, falsi fuggiaschi da falsi orrori, che, rientrati in Ghana e Nigeria e tirati per le orecchie per aver rinnegato la patria, tornano tranquillamente ai loro villaggi. Villaggi da cui chissà chi li aveva estratti.

 

Dopo aver attirato sul Sudan la riprovazione e la commiserazione di tutto il mondo, dei delinquenti colonialisti, dei complici travestiti da samaritani e degli utili idioti, la storia di spie, provocatori e mercenari, elevata a manifestazione autoesaltante, politically correct, di tutto il perbenismo cialtrone o ignorante internazionale, poteva dirsi esaurita, ma vincente. Nei giorni successivi, innescate da Bierdel e soci, partono le cannonate propagandistiche e di avvertimento contro il Sudan: Washington, Londra, Berlino, Parigi, ONU e Nato ventilano sanzioni e interventi. La  corsa degli imperialismi verso il petrolio, gli oleodotti e la sovranità e unità del Sudan, paese che diversamente da Angola, Nigeria, Senegal, Marocco, Muaritania, Niger, Ciad, Mali, Uganda, Kenia, Etiopia, Eritrea, non regala i suoi minerali alle multinazionali e non accetta basi  e “istruttori” USA, è partita. Il Consiglio di Sicurezza, infervorato di umanitarismo non meno che al tempo dello sbranamento della Jugoslavia e, poi, dell’avallo all’occupazione e ai suoi fantocci in Iraq, scaglia tuoni, fulmini e sanzioni. Powell sfanfareggiava ai quattro venti sul “genocidio nel Darfur”. La scena è pronta, lo spettacolo può iniziare. Grazie Cap Anapur.

 

Storia di spie, provocatori e mercenari? Ohibò, non ci andiamo giù un po’ pesanti? Che diranno mai gli umanitaristi non violenti, muncipalisti e partecipazionisti della “Sinistra radicale e innovata”?  Dovunque, in passato, colonialisti e imperialisti hanno cercato di infilare tentacoli, la Cap Anamur era lì, a pescare nel torbido, esibendo una volta 10.000 vietnamiti, un’altra milioni di kosovari in fuga e un’altra 37 “sudanesi”. Fondata nel 1979 da Rupert Neudeck, si è data lustro ripescando i  boat people vietnamiti “in fuga verso un occidente prospero e libero”, definitiva “satanizzazione” dei vietnamiti e dei comunisti. In  Congo, a mestare contro Kabila, quando fu cacciato il dittatore Mobutu, Neudeck si manifesta anche all’assalto dell’ideologia socialista partecipando dal largo della Corea del Nord alle pressioni militari e propandistiche statunitensi, per poi dare un contributo fondamentale all’aggressione, prima tedesco e papalino e poi di tutto l’Occidente, (ricordare il sergente non pentito D’Alema, in corsa verso la presidenza della Repubblica sottobraccio al compagno Bertinotti) alla Jugoslavia, sostenendo le storie-horror del ministro Rudolf Scharping e di Madeleine Albright (la cannibala di Iraq e Jugoslavia, recuperata alle guerre giuste e ben fatte da John Kerry). Entra in  campo al suo fianco Elias Bierdel, all’epoca ancora corrispondente della Tv tedesca ARD, che rafforza l’intento squartatore con sanguinolenti aneddoti antiserbi e antipalestinesi raccattati qua e là. Dal 2003 è il successore di Neudeck. Battesimo del fuoco per ottenere la qualifica di spia e provocatore, i 37 “sudanesi” e la farsa del Canale di Sicilia.

 

Sorella e sostenitrice della Cap Anamur è la tedesca Gesellschaft fuer Bedrohte Voelker (Associazione per i popoli minacciati, APM), che ha anche una sezione sudtirolese nella quale si è distinto il presunto “pacifista interetnico” Alex Langer, sudtirolese,  sodale del provocatore e disinformatore Adriano Sofri, allorché invocava l’intervento bombarolo della Nato contro la perversa etnia serba e si agitava per agevolare l’aggressione Nato e la fine dell’interetnicità socialista nei Balcani. Dal compagno Giuseppe Catapano, che ha effettuato in proposito una ricerca che sarebbe spettata ai ben più attrezzati giornali di sinistra, apprendiamo che l’APM si è adoperata più di tutti perché il governo tedesco difendesse e liberasse Bierdel e compari. Finta di sinistra, come la Cap Anamur, l’APM ha una sezione anche in Bosnia, che lavora con zelo per la secessione del Kosovo e del Sangiaccato in Serbia. Per anni ha gestito l’illegale università parallela albanese di Pristina, etnicamente pulita, finanziata dal destabilizzatore finanziario George Soros e sostenuta con i fondi del narcotraffico degli indipendentisti UCK, istruiti dall’amerikana Al Qaida. Sempre l’APM, non ha fatto mancare il suo sostegno alle “minoranze oppresse” nel Caucaso, a partire naturalmente dai filotedeschi terroristi ceceni, pure rinforzati dall’amerikana Al Qaida (per il “manifesto” e “Liberazione”, prodighi di attribuzioni terroristiche a palestinesi e iracheni, trattasi di “ribelli” e “guerriglieri”), per finire con gli analogamente filotedeschi tartari della Crimea. Massimo appoggio viene poi riservato, non tanto alle legittime nostalgie, quanto al revanscismo dei tedeschi cacciati dai Sudeti, dalla Transilvania, dalla Slesia, dal Don e da Danzica.

In Italia il comitato dei garanti dell’APM vede la presenza del noto medievalista di estrema destra e di Campo Antimperialista, Franco Cardini, e di Sergio Salvi, autore di un libro intitolato “L’Italia non esiste” (Camunia, Firenze, 1996). L’associazione del defunto Langer e soci ha rapporti stretti  con le riviste della “nuova” destra radicale comunitarista (“Frontiere”) e con lo chauvinismo croato attraverso l’Associazione Culturale Italia-Croazia di Sandro Damiani. Innumerevoli i proclami per l’autodeterminazione del Kosovo, spesso ospitati da un –auguriamocelo – inconsapevole “manifesto”, giornale ingannato non di rado dalle facciate libertarie-ecologiche-sociali-umanitarie di queste conventicole collateraliste.

 

Quanto stretto sia il legame tra questa gente e gli ambienti della riconquista coloniale occidentale è saltato agli occhi in primis grazie al sincronismo tra l’operazione Cap Anamur e le mosse della cancelleria tedesca, precipitasi sul boccone  petrolifero sudanese prima ancora che Colin Powell riuscisse a completare davanti al Consiglio di Sicurezza, dove ha contro una Cina già ampiamente introdotta in Sudan  e una Francia che, invece, vorrebbe la sua fetta, la frase “genocidio nel Darfur”. Facendo passare per sudanesi i passeggeri della nave, al ministro degli esteri Joshua Fischer è stata offerta l’occasione di “dirigere tutti i fari dell’opinione pubblica mondiale sul Sudan”. Heidemarie Wieczorek-Zeul, ministra per i paesi emergenti, e Gerhard Baum, ex-ministro degli interni, hanno tempestivamente proposto un intervento militare. Kerstin Mueller, sottosegretaria agli esteri, ricupera la “pulizia etnica” e la “guerra di espulsione”, Christa Nickels, presidente della commissione parlamentare per i diritti umani, non si avventura nel Darfur – come del resto nessuno dei trombettieri, dalle cancellerie occidentali a “Liberazione” - ma si dichiara certa che in Darfur “è in atto, in sostanza, un genocidio”. Dal Darfur, un capo ribelle, eccheggia, con meravigliosa conoscenza di causa e effetto: “Questa è la nostra Sebrenica”. Quando si dice le sinergie!

 

Sullo sfondo, la reale vicenda sudanese, di un paese in cui ripetutamente ho assistito di persona a come  l’imperialismo sionista, cattolico e statunitense, ora anche europeo, da almeno 40 anni, cioè dall’indipendenza e dall’ascesa al potere di successivi governi nazionalisti ed antimperialisti, cerca di sfasciare e ridurre all’obbedienza, con particolare accanimento da quando, dieci anni fa, si sono scoperti, accanto all’acqua e alla fertile agricoltura, ricchi giacimenti di idrocarburi. E’ bastato che il governo centrale di questo paese, tradizionalmente laico e con un’intellighenzia assai evoluta – che mai ha tentato di imporre la legge coranica agli animisti e ai pochissimi cristiani del Sud – riuscisse a combinare una pace con le varie bande ribelli del Sud, specialiste in stragi reciproche, ma dall’Occidente armate e pubblicizzate, che subito si è aperta l’altra morsa della tenaglia attorno alla sovranità e unità del paese: le divergenze tra musulmani nomadi e contadini musulmani  nel Darfur, area opportunamente piagata da un’avversità ambientale che è in massima parte responsabilità dello “sviluppo” occidentale e del sottosviluppo in cui i britannici, cacciati nel 1959, lasciarono, come ovunque, lo loro colonia. Già qualche anno fa mi ero inoltrato con un ottimo ambasciatore italiano (altri tempi!) in profondità nel Darfur. Già allora la siccità provocava carestie spaventose e fughe in massa, allora, non istigate e mascherate, proprio come in Kosovo, da atrocità governative, verso il centro Sudan, ma allora la "comunità internazionale umanitaria" era totalmente assorbita dalla necessità di destabilizzare il sud dei secessionisti neri e al Darfur non dedicava nè una pagnotta, nè "forze di liberazione".  

 

Da lì le versioni del tutto unilaterali e, come nel caso dell’Iraq e della Jugoslavia, razzisticamente sprezzanti verso le rettifiche delle autorità statali sudanesi, su “bande di milizie arabe janjawid” che sterminerebbero e espellerebbero i poveri contadini: leggende orrifiche di tipo “kosovaro” mai verificate, “milioni” di profughi nel Ciad amico degli USA (come l’Uganda, da sempre fomentatore della secessione meridionale), “centinaia di migliaia” di massacrati, gente e villaggi a gogò bruciati, gli inevitabili stupri, voracemente illustrati da certi monumenti femministi, fino agli “orrori dipinti negli occhi dei 37 sudanesi” mai stati in Sudan. E, inevitabili, le “forze della democrazia”, variamente intitolate “Movimento per la giustizia e l’eguaglianza”, o “Esercito di Liberazione del Sudan” (del Sudan, capite, mica del solo Darfur!), ontologicamente buone, come l’UCK kosovaro, o gli stragisti di civili ceceni,  con il corollario dei santuari nel paese “amico” filo-USA, Ciad, e dei mai menzionati armamenti forniti da misteriosi umanitari a stelle e striscie (ma, nella vulgata umanitaria, “strappati ai governativi”). Ed ecco l’ esito pianificato, talmente banale, scontato e ripetitivo da ricordare i “selvaggi senz’anima” dei missionari (non per nulla la bandiera morale è agitata dai monaci comboniani che da cent’anni, con il pretesto delle scuole e delle cliniche private, rompono i coglioni ai sudanesi): la grandinata degli annunci di “interventi umanitari” delle potenze occidentali, in gara per sbranare il paese e rapirne le ricchezze nel quadro della generale “normalizzazione” del Medio Oriente e della ricattura euro-statunitense dell’Africa, in questo caaso soprattutto del petrolifero Sahel.

 

A questo proposito, è opportuno un cenno sulla progressiva militarizzazione dell’Africa sahariana e subshariana da parte delle amministrazioni Clinton e Bush e, prima, la vicenda dell’infiltrazione tedesca in Sudan.

E’ per iniziativa degli USA e dell’UE, quest’ultima sospinta da Berlino, che il Consiglio di Sicurezza ha licenziato una risoluzione che, pur non nominandole espressamente, consente sanzioni contro il Sudan. Nuove sanzioni, visto che sono in vigore dai tempi dell’indipendenza di quel paese riottoso – e anche in disputa con l’Egitto, “nostro amico”, per la gestione delle vitali acque del Nilo, accaparrate in misura sproporzionata dal Cairo -  sanzioni, variamente giustificate, degli USA e, a intermittenza, degli europei. Sono stati i tedeschi e i britannici a esercitare il massimo della pressione morale sulla necessità di intervenire militarmente, ricorrendo alla drammatizzata rappresentazione della disperazione nella provincia occidentale del Darfur . Pressione denunciata ripetutamente dal ministro degli esteri sudanese Mustafa Osman Ismail, già artefice dell’accordo con i secessionisti del Sud, che a costoro concede buona parte dei proventi del petrolio a scapito della collettività nazionale (vedi Croazia), nonché un referendum sull’indipendenza tra sei anni. A nulla è servita questa davvero generosa disponibilità di Khartum, neanche a impedire che i negoziati con i “ribelli” del Darfur, ripetutamente avviati dal governo, venissero da costoro ripetutamente sabotati, nonostante l’impegno del presidente Omar El Bashir ad adoperarsi per la pacificazione della provincia entro il tempo impossibile di 30 giorni, arbitrariamente imposto dall'ONU 

contro il precedente impegno di 90 giorni concordato con Kofi Annan. 

Per i tedeschi c’è in ballo un grosso affare. Bypassando con disinvoltura predatrice le legittime istituzioni sudanesi, sotto gli auspici di Berlino, la multinazionale tedesca di infrastrutture Thormaehlen Schweisstechnik ha concluso in Kenia un accordo con gli esponenti del Sud Sudan per la costruzione di un  corridoio ferroviario, stradale e di oleodotti di 2.500 km, tra la capitale della provincia meridionale Juba, sprofondata in giacimenti di petrolio, oro e uranio, attraverso il fidato Uganda, fino a Mombasa nel fidato Kenia. Oggi le vie di comunicazione e di trasporto dal Sud portano tutte al Nord, verso Port Sudan e rimangono quindi sotto controllo governativo. Un progetto con cui l’impresa tedesca favorisce oggettivamente lo smembramento del paese. “Si tratta dell’arteria femorale della nostra indipendenza”, si è infervorato Costello Garang, leader di una delle tante bande secessioniste alimentate dall’esterno. Al contrario, a rafforzare con il governo l’asse sud-nord, che finora ha tenuto insieme il grande paese multietnico, si sono impegnati paesi come Russia, Cina, Malaysia. Il loro contributo di 1,7 miliardi di dollari è però poca cosa rispetto ai 3 miliardi offerti dai tedeschi. Del resto, è da tempo che il neocolonialismo di Berlino tiene gli occhi puntati su quest’area dell’Africa, in evidente competizione con quanto gli USA vanno facendo sul fianco occidentale e nel Sahel: con sostegno tedesco sta per partire tra Kenia, Uganda e Tanzania un’unione economico-monetaria, cui dovrebbero associarsi presto i secessionisti del Sud Sudan, con il risultato di evidenti tensioni diplomatiche tra i filo-occidentali, oltrechè corrottissimi, regimi di Uganda e Kenia, da un lato, e Khartum dall’altro.

 

Non restano fuori dal gioco gli statunitensi che, fin dai tempi del primo mandato Clinton, hanno intrapreso una massiccia campagna di penetrazione e militarizzazione soprattutto dei paesi della Costa Occidentale e del Sahel. La definitiva presenza militare degli USA, in forma di basi permanenti, truppe e “istruttori” delle forze armate locali, è stata sancita il 23-24 marzo scorsi a Stoccarda, quando i capi di stato maggiore di Ciad, Mali, Mauritania, Marocco, Niger, Senegal e Tunisia hanno partecipato per la prima volta a una riunione presso la sede del comando europeo dell’esercito statunitense (Us-Eucom). Tema: “La cooperazione militare nella lotta globale contro il terrorismo”. L’autoattentato dell’11 settembre 2001 dei golpisti al potere a Washington è servito anche a questo. E per la prima volta, forze armate di Washington hanno partecipato nel marzo 2004 a operazioni militari in quattro paesi del Sahel: Ciad, Mali, Niger e Algeria, in quell’Algeria che gli USA stanno da anni destabilizzando e ricattando proprio manipolando il terrorismo, di patronato Al Qaida, cioè  Cia e Mossad, del Gruppo Salafista per la predicazione e il combattimento.   E’ con l’alibi della lotta a questi agenti dell’imperialismo, che gli USA hanno fornito armi in particolare al Ciad, con ogni probabilità per sostenere la ribellione dei movimenti nel Darfur (dove abitano sei dei 22 milioni di sudanesi). E all’interno della corsa statunitense al petrolio e ai minerali africani, con obiettivi Angola, Nigeria, Zambia, il ribelle Zimbabwe di Mugabe, il Congo, il Senegal, e il Sudan che prendono vita via via mezzi e strutture colonialiste statunitensi più articolate e potenti, come la Pan Sahel Iniziative, l’African Crisis Response Iniziative, l’African Center for Strategic Studies, emanazione diretta del Pentagono, l’Africa Contingency Operations Training Assistance “per il mantenimento della pace e per l’aiuto umanitario”.

 

Come scrive il giornalista francese Pierre Abramovic, analista dell’Africa, “Nell’arco dei prossimi dieci anni, il continente africano diventerà, dopo il Medioriente, la seconda fonte di petrolio, di gas naturale e di minerali indispensabili degli Stati Uniti”. Due percorsi strategici sono al centro del pensiero militare americano: a ovest l’oleodotto Ciad-Camerun verso l’Atlantico e, a est, l’oleodotto Higleig-Port Sudan. Il Sudan, orgogliosamente indipendente, sta nel mezzo. Sul posto, in Ciad, ci sono già i mercenari del MPRI, la massima compagnia USA di assistenza militare al Pentagono, collaudata in Kosovo,  Bosnia, Macedonia e Iraq. L’intera campagna politico-mediatica del Darfur, cui la Cap Anamur ha fornito pozzi di carburante, e l’intervento “umanitario” di Bush, Blair, Schroeder e del Consiglio di Sicurezza sono da collocarsi su questo sfondo. Difficile? No, a disposizione di tutti. Per la maggiore vergogna dell’informazione cosiddetta alternativa e di “sinistra radicale”, insieme al suo codazzo del “volontariato umanitario”.

 

P.S. Si direbbe che il capo di un partito sedicente comunista dovrebbe prendere provvedimenti contro quei suoi collaboratori esteri e giornalisti internazionalisti che di tutto questo al pubblico italiano non hanno fornito neanche un’ acca, anzi hanno corroborato con entusiasmo degno di miglior causa l’enorme inganno teso a favorire il ritorno a ferro e fuoco dell’imperialismo nei confronti dei popoli. Nulla del genere, come abbiamo visto. Anzi, nei confronti di un modesto informatore come il sottoscritto, ha "agito" (cambiare l'intransitivo in transitivo è una di quelle radicali innovazioni che piacciono al capo) la mannaia inquisizionista del Collegio Federale di Roma, con la sospensione di nove mesi dal partito  per aver difeso Cuba, Milosevic, la resistenza irachena, l’Intifada palestinese e aver schifato le piroette liberaldemocratiche ed entriste del vertice (provvedimento la cui esecutorietà è stata per ora sospesa dal meno obbediente Collegio Nazionale di Garanzia, “per evidente mancanza di motivi di gravità”). Intanto il “giornale comunista” “Liberazione” va per la sua strada. Il 29 luglio con un’intera copertina dal- l’agghiacciante titolo “MASSACRO DI DISOCCUPATI”, dedicato all’operazione della Resistenza irachena a Bakuba contro l’esercito di collaborazionisti in formazione, addestrato alla liquidazione e, come provato, alla tortura dei combattenti per la libertà e la sovranità del paese; con un editoriale di prima pagina del dirigente per gli esteri dal nome-burla, Migliore, il 3 agosto, in cui del tutto sprovvisto dell’elementare capacità di classe, ma anche di semplice mestiere, di distinguere tra atti della resistenza vera e terrorismi della provocazione eterodiretta (come se in Italia non ci fossero state le stragi di Stato), si ripete l’anatema contro “gli attentati alle lunghe file di chi cerca lavoro” ( i partigiani che colpivano i collaborazionisti dei nazirepubblichini si rivoltano nella tomba) e, butta insieme  le operazioni autentiche della resistenza con l'assoldato Mossad e Cia e inquinatore della resistenza, Al Zarkawi, gli attentati alle moschee, universalmente riconosciute come di matrice israelo-statunitense per frantumare l’unità dello sforzo liberatore iracheno, e, infine, le bombe contro le chiese cristiane, evidentissimamente dello stesso stampo, ma dal Migliore definite “scontro di civiltà”, per la maggiore gloria e soddisfazione di Huntington, Bush e Berlusconi. 

 

Terminiamo con una frivolezza femminile. Cercatevi il “commento” di Ritanna Armeni, una dama che fa la portavoce del leader maximo e, ohibò, è l'annunciata co-conduttrice della spia Giuliano Ferrara a “Otto e mezzo”, del 28 luglio. Qui si trascorre felicemente, nella scia dell’alleanza D’Alema-Bertinotti e Sinistra Europea-UE, dalla donna che rigetta la rincorsa dell’uomo nella sua scalata maschilista delle gerarchie borghesi e capitaliste, nientemeno che all’esaltazione di autentiche emancipate, seppure in un contesto diverso, "tutto da rispettare" peraltro, come Hillary Clinton, Teresa Heinz Kerry, Elizabeth Ananaia Edwards. Incrdibile? Troverete questi concetti: “Superando una visione dell’emancipazione tutta europea”, queste coniugi si sono emancipate “nella giovane società americana dove altra è la funzione della famiglia, altro il suo ruolo istituzionale e religioso” e, dunque, “la via dell’emancipazione e della liberazione non è univoca né certa. Quella che ci mostra in questi giorni la convention democratica americana può essere una di queste (sic!). Una forma nella quale il supporto al ruolo del consorte nulla toglie alle personali aspirazioni, al personale desiderio di far politica. Del resto le donne sono abituate a cercare escamotage e scorciatoie”. Così parlò la First Lady del PRC, che, evidentemente, di “escamotage e scorciatoie” è ottima intenditrice. Così si inebriò dell’ascesa di donne nell’ombra e nella collusione con tre uomini che quattro quinti dell’umanità considerano criminali provati o promessi. Da Rosa Luxemburg a Hillary Clinton. Bel salto. Mortale.  

Il resto, cari amici, è silenzio. Fino al ritorno dal Venezuela.

 

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