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                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

Qualche riflessione su primarie e altre derive reazionarie

 

RINNEGATI TRA IRAQ E AMERICA LATINA (ovvero: quella Bolognina lunga 12 anni)

 

 

05/10/2005

 

Di ritorno da un lungo itinerario per l’America Latina, nel giro di poche settimane la mia pila di nefandezze dell’ex-sub-sub-comandante è arrivata a circa 50 centimetri. E sono ritagli solo di “Liberazione”e “il manifesto” e di due fogli della  disinformazione principe della borghesia, “Corriere” e “Repubblica”, testate a lui care e dalle quali, solitamente passando sopra le chine teste della sua base, organismi direttivi compresi, comunica urbi et orbi i capovolgimenti strategici e tattici che improvvisava, lungo la sua marcia su Roma dal 1993 (segretario voluto da Cossutta, grazie), ancora in rosso, al recente veneziano congresso dell’abiura e degli sputazzi politico-morali-e-poco-ci-manca-anche fisici agli avversari.  La montagna è talmente piena di cose di “pessimo gusto”, e neanche un po’ carine come quelle di Gozzano, da respingermi. Preferisco allora rubare un brano, irrefutabile, che mi gira in testa da quando l’ho letto nella newsletter di Uruknet.

 

Se qualcuno tentasse di violentarti, non ti difenderesti con tutte le tue forze? E poi quello ci prova e ci riprova e tu lotti e lotti e lotti, e quello insiste e tu tenti di fargli male per farlo andar via, stai sanguinando e lui si accanisce e ti colpisce e ti ricolpisce per farti cedere, hai il naso rotto, urli di dolore, spingi e scalci, invochi aiuto, ma ti picchia di più e di più e di più, ti spezza i denti, lo colpisci nello stomaco con tutte le tue forze, ne scorgi il dolore sulla faccia ma lui insiste, non riesci più a vedere dall’occhio sinistro, la gola ti brucia per le grida, c’è gente che passa e non fa nulla, ma tu urli e lotti con ogni goccia della forza che ti rimane, combatti con qualsiasi cosa che ti capiti a tiro, ti rendi conto che stai rischiando la vita, lacrime e sangue sulla faccia e sul corpo, i tuoi vestiti sono lacerati, ogni parte del corpo ti fa male… Allora qualcuno alla finestra proprio alle tue spalle, mentre beve tè freddo, seduto in una comoda poltrona, magari in compagnia di Bruno Vespa, rilassato mentre contempla l’intera scena dall’inizio, apre il battente e ti dice: ohè, ma che fai? Cosa stai combinando? Perché usate  violenza?… E tu ti senti pugnalata alla schiena e le sue parole ti fanno più male dei colpi ricevuti, ti chiedi sgomenta: è forse colpa mia? Come puoi permettergli di farmi tutto questo, limitandoti ad alzare le sopracciglia? Che ti è successo?Perché non mi aiuti? Perché non mi aiuta nessuno? Cosa ne è della mia vita, del mio onore, della mia dignità?  Che ne sarà dei miei figli? Che ne sarà della nostra storia?

 

Impressionante, vero? Tragico, vero? Ripugnante, vero? Chi riconoscete in questo brano, in questo autentico grido di disperazione totale, in questa spaventoso atto d’accusa? Quale infame cialtrone non si chiede più chi iniziò la guerra, chi attacca, occupa, distrugge, massacra e chi si difende? L’occupazione statunitense-israelo-italiana dell’Iraq uccide, sequestra, tortura ogni giorno persone innocenti, coraggiose, dignitose, eroiche, rade al suolo città, stupra, affama e devasta decine e decine di migliaia di esseri umani, uomini, donne, bambini, utilizza squadroni della morte terroristici che fanno assassinii mirati e piazzano bombe tra la folla, come in Salvador, come in Nicaragua, come in Guatemala, come a Cuba, come in Italia dal ’69 in poi, come in Indonesia, a Madrid, a Londra, attribuendoli a “terroristi islamici”, tutto per demonizzare la resistenza dei giusti, oppressi, stuprati. Ogni giorno dalle 60 alle cento operazioni della resistenza si oppongono a questi psicopatici criminali e gli impediscono di divorare il loro paese, il mondo, l’umanità. Non sono loro che hanno deciso di fare la guerra, non hanno la minima colpa, non hanno fatto migliaia di chilometri per portare morte, degrado, distruzione, non fanno che difendersi, difendere la loro patria, la loro storia, le loro donne, i loro bambini, le loro case, la loro dignità. E, dalla sua finestra, dalla sua comoda poltrona, dalla sua bulimia di governo, dall’autoreferenzialità più oscena, dal narcisismo cretino, qualcuno blatera supponente di “violenza”, “caos”, “spirale guerra-terrorismo” e se la fa con i traditori, i collaborazionisti, i rinnegati come lui, i vermi umani e li chiama “società civile”.

Poi finge di far comunella con chi in America Latina (non a Cuba, per carità, quella va sistemata mandando avanti “dissidenti”, ovviamente pagati dal mostro stragista a stelle e striscie, e anche i propri cavalli di razza, Migliore – quello dal nome paradosso – Moscato, o gli imbecilli che sospirano “la resistenza irachena non ci parla”…) combatte l’imperialismo, imperialismo che lui nega che esista (e i nazisionisti di Washington ringraziano della mimetizzazione), chi in America Latina sta lavorando a rovesciare il dominio straniero, a fermare la rapina secolare di acqua e pane da parte di un’ elite nella quale lui, invece, cerca di intrufolarsi brandendo nonviolenze, spirali guerra-terrorismo, sputi su partigiani antichi e nuovi, frequentando con i propri corifei la feccia della peggiore borghesia mai apparsa nel nostro paese, coltivando nel suo partito un’ abietta e subietta demeritocrazia, neanche un po’ scalfita dai mugugni dei marginali appollaiati fuori dalla sua finestra e che magari a chi là sotto, nella sua pozza di sangue, scalcia contro lo stupratore, sospirano: dai, resisti, ne hai diritto…

 

Ma in America Latina, quell’America Latina a cui lui, ancora un poco condizionato da quanto di decente raschia il fondo di un partito sedicente comunista,  con pura strumentalità strizza l ‘occhio di sghimbescio, in quell’America Latina di Hugo Chavez , del Che, di Fidel, di Tupac Amaru, di una rivoluzione bolivariana cui i suoi complici in Unione tirano coltellate nella schiena ma che va dilagando tra milioni di oppressi, sopravvissuti, dimenticati da mezzo millennio e risuscitati, in quell’America Latina alla Resistenza irachena si guarda con infinita gratitudine, ammirazione e orgoglio. Gli si riconosce con assiduità commossa il merito di aver reagito, parato i colpi, scalciato, fatto assai male al violentatore, tanto da aver riaperto il libro sconfinato della storia dei giusti, degli sfruttati, dei poveri, tanto da aver lacerato il destino di morte pianificato per il mondo dai biblici nichilisti di Tel Aviv, Washington, Wall Street, di tutte le banche, armate o disarmate,  alla faccia del mercenariato giornalistico, di sicofanti e manovalanza politica, di sciacalli dei “diritti umani”, della “democrazia” e della “solidarietà”, nuovi missionari di una Chiesa di stupratori. 

 

Hugo Chavez, e con lui milioni di cittadini di quel continente che dal Vietnam, ieri, e dall’Iraq, oggi, stanno imparando la salvezza della guerra asimmetrica contro l’imperialismo, una guerra sacrosanta di popolo, imbattibile e garanzia di sopravvivenza del pianeta, compresi gli infingardi e mistificatori subalterni che stanno alla finestra, sanno bene e, grazie a milioni di voci rilanciate da Telesur” , fanno sapere a tutti coloro che non si tappano le orecchie al grido di rivolta della Resistenza irachena, che la risposta al capitalismo imperialista e ai suoi reggicoda “riformisti” o “riformatori”, alternanzisti o alternativi, è la rivoluzione. Sanno bene che chi, violentissimo e prevaricatore in tutti i suoi rapporti, tranne quelli verso l’alto, snocciola a mo’ di rosario le invocazioni alla nonviolenza, transitando dalle autoumiliazioni di tutte le  Porta a Porta offerte dal lupanare di regime, alle feste nere di fidanzamento di AN, alle orge di spocchia e cattivo gusto delle cerimonie genetliache con Valeria Marini e Cecchi Gori sottobraccio a Berlusconi, non sarà mai e poi mai dalla loro parte, non è che un ambiguo arnese della controrivoluzione, non fermerà mai nessuna guerra clintoniana, bushiana, del bombarolo D’Alema, del serial killer Sharon, di terminators futuri. Sanno bene, i compagni latinoamericani che chi ha fermato la guerra sono stati gli algerini, oggi postumamente denigrati dai bonzi di sinistra e dai loro velinari, i vietnamiti, i Mau Mau, i cubani e, oggi, anche e soprattutto gli iracheni con il concorso delle gloriose brigate internazionali arabe. Già, i mezzi corrispondono proprio ai fini e la rivoluzione non è un pranzo di gala. Il fucile libera e il fine è la libertà., mentre le chiacchiere stanno a zero. Senza i partigiani iracheni, quante guerre avremmo visto, da quali altri oceani di sangue, da quali resistenze avremmo dovuto distogliere lo sguardo, o pigolarvi sopra disappunto dalla comoda poltrona? Se Cuba non fosse armata, se dieci milioni di cubani non fossero pronti a prendere a fucilate ogni singolo invasore e stupratore, su quale altra carneficina, a  profitto della Carlyle, della Bechtel, della Finmeccanica, avrebbe dovuto soprassedere il nostro eroe per continuare a sedersi sugli stessi scranni insieme agli incrollabili alleati degli Stati Uniti, “più grande democrazia del mondo”, secondo i virgulti togliattiani D’Alema e Veltroni e, ovviamente, secondo i radicali, al cui ritorno “Liberazione”, per la penna dell’ancella televisiva dello spione Giuliano Ferrara Ritanna Armeni, macella il vitello più grasso.

 

Hugo Chavez, ogni singolo cubano, ogni indigeno in rivolta, ogni partigiano iracheno, classi e  popoli che hanno impresso nel destino il loro nome, sanno che guerra e capitalismo, imperialismo, colonialismo sono sinonimi, che si tratta di un’unica idra a tante teste e che chi vi oppone la nonviolenza quelle teste le nutre, pettina la Medusa, lucida l’occhio al ciclope, ci disarma e paralizza nel nome di quei diritti umani che lasciano alla mercè dello stupratore i diritti dell’umanità: salute, conoscenza, lavoro, dignità, solidarietà, felicità, pace, tutto quello che o è collettivo o non è. Vadano a studiare la rivoluzione bolivariana, a leggerne i giornali, a ascoltarne radio e tv, quei grotteschi giornalisti “democratici” che l’altro giorno si sono riuniti a convegno a invocare libertà alle loro indecenti compromissioni, in buona parte appena reduci da ossessive frequentazioni di salotti televisivi che hanno avuto la faccia come il culo di contestare. E avreste dovuto sentire i Curzi, censore principe da quando al TG3, per aver rivelato porcherie craxiste in Africa, mi sbattè in cronaca nera, o mi cancellò una rubrica di denuncia dei crimini contro l’ambiente e i popoli del Terzo Mondo perché aveva sconvolto i gossip della conduttrice Raffai, o mi cacciò da Liberazione perché avevo detto alcune verità non governative su Cuba in contrasto con il diffamatore suo padrone. Avreste dovuto sentirlo, equilibrista delle lottizzazioni RAI, narciso autoincensante che proietta sui palazzi di Roma il video delle sue vicende paracule, insieme alle Gruber e alle Botteri, cavalieri della Repubblica, mallevadori senza alito di dubbi dello stupro di Jugoslavia, orgasmatiche accoglitrici delle truppe USA a Bagdad, arcigne e doloranti deprecatrici dei “terroristi” in Iraq e ovunque! Avreste dovuto vederne l’indignazione quando qualcuno, un po’ più deontologico, gli chiedeva ragione degli appiattimenti  sugli stereotipi rigurgitati dalle centrali della disinformazione, di quel loro astuto e imbelle uso delle “fonti autorevoli”, dell’ “esperto anonimo”, delle “voci credibili”, del pappa e ciccia con sottoprodotti della comunicazione di regime: “tribunale dell’inquisizione”, “forche caudine”, “e il pluralismo dove lo mettiamo?” E ancora Curzi, difensore estremo del dg Cattaneo, ammiratore del “professionista di valore Vespa”, insistente propugnatore di quella sozzeria che era “Affari tuoi”.

 

Trasmigriamo, aria pulita. Amici, torno da un Venezuela dove, contro tutti i venti (che presto, secondo le indicazioni di Condoleezza Rice e Donald Rumsfeld, diventeranno uragano) e tutti gli ancora frequenti sabotaggi interni, di magistrature, polizie, forze armate, che non si sono ovviamente potute bonificare in un colpo solo, nell’affanno della costruzione di una classe politica nuova, ancora nelle fasi dell’infanzia, dove a dispetto di tutto si parla di “socialismo del XXI secolo”, si fa la relativa rivoluzione, si lavora giorno e notte, sempre più stretti a Cuba, per l’Alternativa Bolivariana per le Americhe (ALBA), si prepara la resistenza armata di popolo contro mercenari eversori e aggressori imperialisti (un milione di cittadini congedati nella Riserva, 2 milioni e mezzo di volontari nella Difesa di Popolo), si lanciano avanguardie rivoluzionarie a diffondere coscienza politica di massa (Frente Francisco De Miranda, Coordinadora Bolivariana Democratica, tra gli altri), si alfabetizzano e curano gli esclusi, si toglie la terra ai latifondisti (che sparano e uccidono i contadini, ma ora interviene la Guardia Nazionale a garantire la distribuzione), si mette in discussione la proprietà privata, si espropriano le aziende che non producono, o non producono in misura corretta (Pepsi Cola in testa) e si affidano all’autogestione dei lavoratori. Vengo dal grande Festival Mondiale della Gioventù, appuntamento antimperialista dei bei tempi andati. Fidel lo ha fatto rinascere e l’Algeria, prima, e il Venezuela poi lo hanno contrapposto a quei Porto Alegre no-new-global delle ONG finanziate dalle fondazioni imperiali, dei Lula in disarmo, degli Attac e cerchiobottisti vari, degli opportunisti e infiltrati, dei pacifisti privi di se e di ma, del brigante finanziario George Soros che su Liberazione viene reclutato tra i no-global. Quel Soros che manda i suoi pretoriani di Otpor per smantellare e recuperare agli avvoltoi la Jugoslavia e, via via, la Georgia, l’Ucraina, il Libano, nelle varie rivoluzioni colorate che si trascinano dietro le vivandiere del PRC e di Liberazione. Del resto non ha detto Bertinotti che Sharon, lo sterminatore sanguinario di pura classe nazista, va incoraggiato, solo perché è riuscito, fuggendo a gambe levate da Gaza, a rinchiudervi un milione e mezzo di palestinesi con un filo spinato che dalle falde dell’acqua arriva al cielo? E di fronte a coloni isterici, ritirati da terre altrui, rapinate e violentate (i palestinesi non potevano scavare pozzi che fossero profonde quanto quelli degli occupanti!), tutti, il giornalaccio del sub-sub in testa, a dimenticarsi che intanto il macellaio di Sabra e Shatila faceva del resto della Palestina un campo di concentramento che non sarà di forni crematori – oggi si procede per estinzione graduale – ma qualitativamente pochissimo ci manca.

 

Vengo da un quattro settembre, ultimo dei miei giorni felici in America Latina, quando a Caracas, lungo un chilometro della Avenida Bolivar, nel cuore della città, si dipanava lussureggiante, colorito e schiamazzante, il grande e festoso mercal di ogni inizio mese,  apice e sintesi dei mille e mille mercal – supermercati e supermercatini dai prezzi ridotti fino all’80% di tutto quello che serve per vivere, dal pane alla bistecca, dal detersivo al giubbotto, direttamente dalle cooperative dei contadini e operai, da campi e fabbriche socializzati, che poi impongono un calmiere anche alla produzione-distribuzione del “libero mercato” -  e, tra musiche e file di famigliole arrapate da beni finalmente accessibili e grida per cetrioli e farine, si vaccinavano bimbi e adulti, gratis e, gratis, si iscrivevano i ritardatari alle liste elettorali e funzionari comunali gli facevano i documenti d’identità e, gratis, si misuravano viste e si rilasciavano patenti. Nel 2003 i primi mercal servivano 300.000 bisognosi. Oggi 15 milioni. Cose mai viste. Forse nella Comune di Parigi.

 

Vengo da un Ecuador dove, appena arrivato, mi sono ritrovato nell’insurrezione popolare indigena delle due provincie amazzoniche – Orellana e Sucumbio – dove i regimi oligarchici svendono ai petrolieri devastatori e genocidi le risorse del paese in cambio della distruzione di foreste, acque, culture, umanità. Una rivolta dagli scontri durissimi con militari con licenza di sparare, killer dello stato d’assedio proclamato dal tappabuchi Alfredo Palacio, sostituito a Lucio Gutierrez cacciato dalla rivolta di popolo, partito con promesse di rifondazione dello Stato e briglia ai rapinatori stranieri e finito con la calata di braghe davanti a Oxy, Chevron, Agip, Repsol, Petrobras. E’ sempre sotto Palacio che, sul modello centroamericano è stato deciso l’affidamento agli israeliani – fornitori di guardaspalle ai narcoboss colombiani – della sicurezza pubblica di Guayaquil ed è stata data licenza ad altri delinquenti israeliani di reclutare carne da cannone latinoamericana per l’Iraq, al largo della base-gigante USA di Manta. Chiedevano gli indigeni sulle barricate e poi, con lo stato d’assedio, i cortei delle donne imbavagliate, la cacciata della Occidental, la rinegoziazione  degli accordi con le altre multinazionali del petrolio che oggi cedono allo Stato nientemeno che il 13% dei loro ricavi, la riabilitazione del loro ambiente contaminato, la valorizzazione di identità e cultura,  la restituzione delle terre, un’assemblea costituente, la cacciata dei nordamericani e delle loro basi, strade, scuole, ospedali, la riforma agraria, lo stop all’imperversare del Plan Colombia e delle fumigazioni ai propri confini, insomma un’altra rivoluzione. E’ durata otto giorni e poi, contro la richiesta dei petrolieri, il governo, con i ministri che fuggono come topi in vista della nuova bufera popolare in arrivo, ha dovuto cedere al negoziato, promettere, impegnarsi. Ne verrà niente o pochissimo, ma ne verrà un’altra rivolta, un’altra cacciata del potente di turno, e così via, fino a quando una maggiore unità – spiega Paco Velasco, irruente e lucido direttore di “Radio La Luna”, motore primo della comunicazione antagonista e della mobilitazione - tra ceti urbani, in prima fila nella cacciata di Gutierrez, e indigeni risorti, protagonisti delle rivolte andine e amazzoniche, non produca quella nuova classe politica che in tutto il continente si va formando e che realizzerà gli obiettivi sociali, antimperialisti e di integrazione dell’ALBA. Dalle piane amazzoniche risaliamo all’altopiano di Quito ed è un percorso vertiginoso di picchi rossi nell’azzurrissima cupola, di abissi da brivido rasentati da autobus che si fingono a Monza, di piccole comunità indios disperse nella siccità, con le donne sgargianti di colori e mai senza bombetta in testa e, in questo paese adolescente e dal lungo futuro, mai senza un bimbetto che spunta dallo scialle sulla schiena, spesso insieme a una catasta di legna, o di pannocchie. Un viaggio di dodici ore che si arrotola nella memoria come quegli infiniti tornanti da assalto al cielo.

 

La resurrezione dei popoli nativi, in Ecuador collegati a un combattivo 5% di afroecuadoriani, ha ovunque, nel campo, nel barrio, nel posto di lavoro, in casa, per avanguardie le donne. In Bolivia, dietro al discusso Evo Morales (è Chavez o Lula?), stanno coalizzandosi per la scadenza elettorale presidenziale del 4 dicembre le organizzazioni popolari che hanno dimostrato la propria potenza politica e combattività nelle tre grandi vittorie su oligarchia e multinazionali: la cacciata nel 2000 da Cochabamba della Bechtel dell’acqua privatizzata e rubata, l’abbattimento del fascista Sanchez de Lozada nel 2003, l’espulsione del successore fedifrago Carlos Mesa quest’anno. Ogni volta con quelli di El Alto, immensa distesa urbano-agricola sopra La Paz, a bloccare capitale e vie di comunicazione fino allo strangolamento delle istituzioni, con i cocaleros ad assediare i palazzi del potere, con i minatori a scendere dalle Ande muniti di candelotti di dinamite per rispondere ai fucilatori di regime (80 assassinati da Sanchez de Lozada), magari nel nome della  bertinottiana nonviolenza. E se non li avessero avuti e usati, c’è da giurare che il ladrone de Lozada, anzichè tra i sodali di Miami, starebbe ancora lì. C’è anche una componente indigena dalla forte identificazione etnica, a rischio di separatezza (Felipe Quispe e i suoi), con rivendicazioni sacrosante, ma obiettivi vagamente restauratori di quanto era e non è più e soprattutto più non può funzionare. La prospettiva non può che essere, nella salvaguardia dei diritti ancestrali legittimi, l’unità di classe che, in Bolivia, in ogni grande scontro si è realizzata e ha trionfato.

 

Per il Venezuela, che  nello stesso 4 dicembre voterà per le legislative, a completare la hola rivoluzionaria di Chavez, gli USA stanno allestendo contromisure: giri dei becchini Rice e Rumsfeld tra i quisling del continente,  piani governativi per la destabilizzazione terroristica del paese facendo leva sugli sgherri colombiani e sui rimasugli golpisti interni;  piani per sedizioni reazionarie arancioni tipo Belgrado, Kiev, Libano;  vertice di guerrafondai, da Albright ad Aznar, dalla Fondazione Cubanoamericana di Posada Carriles a venduti come Vargas Llosa, agli amici di Pinochet e del messicano Fox, ai reperti dei vaticanisti di Solidarnosc-Cia. Succederà a Tallin in Estonia, il 13-14 di ottobre, per mettere a punto l’aggressione. Così per l’Ecuador, dove infiltrati israeliani, base USA di Manta, fascisti colombiani sbattono le rispettive bombe e sciabole, così per la Bolivia che esce dai ceppi della schiavitù coloniale e neocoloniale, dove si sta tentando il recupero colonialista utilizzando, da un lato, gli impulsi secessionisti di una spaventata borghesia dell’ oriente di Santa Cruz, grande riserva di gas, petrolio e acqua del paese e, dall’altro, la militarizzazione del Paraguay con nuove basi statunitensi lanciate verso quello stesso oriente boliviano, in vista di un intervento “di soccorso” a chi potrebbe aver proclamato un governo “democratico” a Santa Cruz. Non mancheranno, fra poco, le scoperte, prontamente riecheggiate da tutti gli sciacalli dell’informazione complice e subalterna, di campi di addestramento di terroristi in Venezuela, Ecuador, Bolivia, Uruguay, di intrecci tra Hugo Chavez e Osama bin Laden, di “provocazioni” dei paesi  in lotta nei confronti di quelli amici e “democratici”, di narcoguerriglie, di brogli elettorali, di nuovi “assi del male”. E’ da tempo che i nazisionisti USA strombazzano di coaguli terroristici alla triplice frontiera tra Brasile, Paraguay e Bolivia  E non mancherà statene certi, allora, una risposta adeguata, con ogni forza possibile, da parte di masse e, in uno o due casi, di governanti, che hanno preso coscienza di sé, dei propri diritti e dei propri obiettivi. Sarà da vedere chi, allora, starà con chi quando, all’ irachena, popoli in armi sapranno resistere e capovolgere la storia. Una storia già splendidamente capovolta nel 1917, tanto per ricordarsi che è incominciata da tempo e non è finita.

 

E noi, intanto, ci dovremmo sbattere per quella megaturlupinatura populista delle primarie. Primarie i cui partecipanti si manifestano definitivamente omologati al più retrivo dei processi antistorici: presidenzialismo, per non dire autocrazia, bipolarismo dei due fantini sull’unico cavallo capitalista, vittoria prendi-tutto, plebiscitarismo, personalizzazione spinta al delirio, manipolazione fino al totale esautoramento della volontà popolare per virtù di apparati e quattrini. Vandea. Difatti, non si pone forse il Nostro, sotto l’incalzare dello shock and awe ratzingeriano, non tanto il problema della vita di 25 milioni di iracheni come di dieci milioni di cubani e via elencando bushiani morituri, ma, con infinito rispetto per l’oppio dei popoli, quello personale di dio, così strizzando l’occhio alle operazioni sporche delle armate integraliste cattoliche? Qui si agita un protagonista dal raffinato gusto stile fighetto e dal gusto becero nelle frequentazioni mondane, trasformista più scaltro dell’improvvido Occhetto che, volendo operare una metamorfosi dal proletariato alla borghesia capitalista in una sola notte, si è visto spuntare dietro un imprevisto “zoccolo duro” rifondatosi comunista. Quest’altro ha proceduto per gradi di terremoto, da grandioso esemplare di voltagabbana italiota, dal tremito di scala Richter uno fino all’attuale sconquasso Richter sette. Ricordate lo sposalizio irresolubile con il movimento dei movimenti (per la verità solo con l’ala più morbida e compatibile) e, poco dopo, in un testa-coda che più politicista non si può, come gli ha messo le corna da cinicissimo marito sfarfallone. E cosa ne dite di un fogliaccio illeggibile che offre pianure di carta a Vladimir Luxuria e Bifo, alle intemperanze depistanti di tardofemministe dalle zanne che neanche il più macho dei macho, a propagandisti israelo-sionisti travestiti da esegeti letterari e, da classico collateralista che spapagalleggia tutte le balle delle agenzie imperialiste, nasconde in trafiletti la sofferenza e la lotta (ovviamente “terroristica”) irachena?

 

Illudendo, prima e poi, via via, saltando fossi sempre più larghi, menando sberlacce sempre più dure a sudditi sempre più obnubilati e confusi; reggendo, con la stronzata “guerra-terrorismo”, bordone ai killer planetari nella loro innesco della pandemia del terrore per mezzo di autoattentati a New York, Londra, Madrid e via massacrando per far chiedere alla gente sicurezza (leggi dittatura); inseguendo al tempo stesso l’altro scassacazzi del tiro a due Bush-Papa nella costruzione gerarchica di una monarchia assoluta; prendendo il proprio seguito in contropiede e per il culo; corrompendo un’intera categoria di quadri e dirigenti con poltrone e prebende, intimidendo e reprimendo gli occasionali, sempre più isolati e vani, protestatari, facendosi cantare addosso Bandiera Rossa e l’Internazionale – spettacolo raccapricciante nell’arena dei 7000 (erano centomila nei cortei degli anni passati) – dopo aver dichiarato morti e sepolti Marx, Lenin e, a bassa voce, ma a buon intenditor poche parole, i partigiani d’ogni parte tempo. Giovanni Pesce, medaglia d’oro della Resistenza di sessant’anni fa, proposto al Senato a vita. E un popolo in piedi oggi, grondante sangue sulle macerie del suo paese, culla di ogni civiltà, tradito, colpito alle spalle, chiamato terrorista all’unisono con Bush, D’Alema, Berlusconi, Blair e l’inferno che se li porti.

 Così è, se vi pare. E, dunque, votate, votate. Sarete in buona compagnia:  la combriccola, o cosca, o loggia, o oratorio, in cui galleggia il Nostro si appresta a votare presidente della regione Sicilia, al posto del noto Cuffaro, tale Pippo Baudo…   

          

P.S. Sul Manifesto del 6 ottobre, enorme in prima pagina, sotto il titolo “Il trionfo dell’omofobia”, c’è la foto di una  pubblicità di quell’opportunistico fiuta-tendenze da sistema che è Oliviero Toscani. C’è un omaccione che, da dietro, acchiappa un sorridente partner per i genitali. E’ l’esibizione di un accoppiamento omo. Pubblicità, si dispera e indigna “Liberazione”, bandita dall’Istituto di Autodisciplina della Pubblicità. Immaginatevi la variante etero: qualcuno prende per le spalle una donna e, premendosela sul bassoventre, le manipola i genitali. Potete immaginarvi le reazioni, in particolare delle guardaspalle postfemministe del sub-sub? E poi, per maggiore godimento, godetevi all’interno l’autopubblicità del sub-sub tardone. Una foto eloquente: mascella volitiva, sigaro cazzuto in erezione, aria da sfottò, espressione da figlio di puttana, faccia da schiaffi. Un vero comunista. A quando gli schiaffi?

 

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