| 
        
         | 
          
          
          
          
          9 giugno 2007: felicità 
          tragica
          
          IL CUPIO DISSOLVI 
          
          DI PACIFINTI E 
          SINISTRI 
          
          e possiamo 
          renderne merito a Bernocchi
          
          
            
            
          
          14/06/2007 
          
            
          
          Incominciamo con un bell’ossimoro: 
          felicità tragica, volendo anche tragedia felice. 
          
          E’ quella che fiorisce nelle vittime 
          delle bastonate quando riescono a colpire il bastonatore. Cosa che, 
          ovviamente, per Bertisconi, Menaguerra e Morgantini è sommamente 
          diseducativo. Ma che si radica anche negli analoghi sentimenti di 
          qualche centinaio di generazioni passate per analoga esperienza e di 
          cui i successori attuali sono i felici portatori. Il 
          cupio dissolvi l’ho visto 
          quarant’anni fa, di questi tempi, in Palestina, Guerra dei sei giorni. 
          Uscito da Londra, dove Beatles, minigonne, licenziosità varie e 
          nordirlandesi in lotta mi avevano fatto sentire come un topo nel 
          formaggio, sui carri armati con la Olivetti 22 sulle ginocchia 
          viaggiavo verso Sinai e Golan sentendomi un topo in trappola: 
          assistere ai presunti ricacciandi a mare che radevano al suolo 
          l’habitat e la vita dei palestinesi e ne cacciavano centinaia di 
          migliaia ai confini del mondo, senza poter far altro che riferirne, 
          tra tagli astuti di censura militare, a qualcuno lontano che 
          probabilmente non ci avrebbe creduto. Pareva che quelle vittime  non 
          potessero ormai avere altro destino che quello di dissolversi e uscire 
          dalla storia, liquidati da una forza spietata  che agiva nel nome di 
          qualcosa di inconfutabile, dio, nonché dall’inversione 
          carnefici-vittime coltivata macchiavellicamente da chi era abituato da 
          millenni a sentirsi portatore di superiorità e verità. E, 
          simultaneamente, il cupio dissolvi 
          pareva entrato nelle sinapsi inconscie di chi si esibiva da 
          trionfatore e giustiziere dei torti subiti da tutt’altra parte: era 
          l’inesorabile l’autodissoluzione del mito di una nazione dal 
          conclamato primato etico, politico e sociale, in punta d’acciaio 
          militarista e razzista del ricupero coloniale di popoli che avevano 
          iniziato il cammino del riscatto. Era l’assunzione da parte della 
          vittima di un olocausto dei principi e metodi dei suoi persecutori. 
          
            
          
          Ma i palestinesi, a un certo punto, tra 
          le ceneri della dispersione e della soluzione finale dei rimasti, 
          avevano scoperto colori e calori di brace e li avevano alimentati con 
          il soffio del vento che aveva iniziato a spirare di continente in 
          continente. Fine anni ’60, anni ’70, i migliori della nostra vita ( e 
          non perché, come si scrive su “Liberazione” e “manifesto”, perché 
          gli anni di Berlinguer e Moro, 
          ma per tutt’il contrario), i migliori anche per i palestinesi assurti 
          a fedayin. La felicità 
          tragica l’ho condivisa con questi fedayin adolescenti quando, 
          appostati sulle rive del Giordano con il Kalachnikov, per l’imboscata 
          ai terminator con 
          stella di Davide, ci guardavamo negli occhi e ci sorridevamo. 
          Felicità, perché ci si ergeva contro il male, la morte, nel nome 
          dell’umanità sofferente passata, presente e futura, perché si apriva 
          un varco di luce nel tunnel del “fine pena”, perché si agiva di 
          concerto, in solidarietà, zeppi d’amore. Tragica, perché tragico era 
          il retroterra, perché la vita risorgeva comunque da una tragedia in 
          atto, perché si doveva morire e inevitabilmente uccidere i singoli per 
          la vita di tutti, perché, nella festa, un tarlo continuava a 
          sussurrarti che la tragedia non sarebbe finita. 
          
            
          
          Leggevo un 
          cupio dissolvi, analogo ai 
          due di cui sopra, nelle facce stiracchiate e nelle patetiche e 
          bislacche dichiarazioni di coloro che si erano creduti capipopolo e si 
          sono ritrovati, il 9 giugno 2007, alle 17, in Piazza del Popolo, 
          capicapannello. Volevano rampognare Bush e accarezzare Prodi. 
          Prendersela con il cavaliere dell’Apocalisse, ma far finta che il suo 
          scudiero facesse il filantropo da un’altra parte. Convincenti e 
          credibili come il papa quando ammonisce i ricchi e abbraccia Bush 
          (vista la meravigliosa vignetta di Bush col panzerpapa: “La coppia di 
          fatto”?). Come non ipotizzare la fuga nell’Antartico dopo aver 
          constatato, con l’evidenza di una tegola sul naso, che, a forza di 
          protervia delle chiacchiere e disastro delle azioni, a forza di 
          biasimare il mandante e risparmiare il sicario, si era rimasti in 
          quattro, e nemmeno gatti: poliziotti, cronisti, famigliari, 
          portaborse, ostinati occupanti o intemerati auspicanti di strapuntini 
          e poltrone? Mentre da un paio di chilometri, oltre i caffè presidiati 
          dal Kossiga imbandierato di nazisionismo, giungeva il rombo di 150.000 
          (alla faccia del sabotaggio dello sfasciume detto “Trenitalia”, 
          disposto dal sempre più beriano ministro di polizia) marciatori della 
          liberazione. Liberazione sia dal tiranno che dal suo buffone di corte, 
          sia dall’assassino che dal palo. Elementare, Watson. Liberazione dal 
          colonialismo della menzogna, dell’intimidazione, diffamazione, 
          repressione. Liberazione dai praticoni dell’equivoco, del millantato 
          credito, del camaleontismo, dell’imbroglio, del bidone, del ricatto. 
          Quelli lì, imbalsamati nel disdoro a Piazza del Popolo. Compresi gli 
          scaltri cerchiobottisti delle due piazze il 9 ( diventato 90 per la 
          paura di perdere il posto), divertenti a vederli squartati come 
          Montezuma dai cavalli di Cortez, con i piedi a Piazza del Popolo e 
          aneliti verso il corteo. Ecco, in quelli che in quel corteo si 
          vedevano vindici della verità e della serietà, finalmente vincenti, e 
          anche rappresentanti dei milioni confinati nella parte del torto a sud 
          e a nord dell’equatore, c’era le felicità tragica che splendeva come 
          un circuito elettrico tra i miei compagni fedayin con il Kalachnikov, 
          vindici di tutto quanto spetta all’uomo. C’è forse qualcosa che dà più 
          soddisfazione al sottoposto dell’aver fucilato, in questo caso 
          politicamente e moralmente, il sodomizzatore dei sottoposti? Dell’aver 
          potuto strappare il vello di agnello al lupo (scusami, lupo!) e averlo 
          mostrato nudo a quelle 150.000 avanguardie di popolo e, al TG1, 2, 3, 
          4, 5 piacendo, alla platea televisiva del globo terracqueo?  Guardate 
          che non esagero. Dai tempi della cacciata di Lama dall’università, non 
          era più successo. C’è un battaglione di traumatizzati da quel ’77 che 
          stanno stendendo vernice nera bipartisan sull’anno più nobile degli 
          ultimi quattro decenni: hai visto mai che si ripresenta? E riusciranno 
          ancora a infiltrarlo, manipolarlo, provocarlo a un confronto armato 
          suicida, criminalizzarlo ed estinguerlo?  
          
            
          
          La parte tragica della faccenda è 
          proprio quell’esito. E il contesto, ancora più scientificamente 
          repressivo e castrante, allestito dai padroni oggi. Con il concorso – 
          e questa non è una gran novità rispetto agli anni ’70 – di quei 
          coadiuvanti che, ancora una volta, erano riusciti a farci credere che 
          sarebbero stati dalla nostra parte, al governo dei capitalisti 
          avrebbero messo la mordacchia, per le guerre si sarebbe dovuto passare 
          sopra i cadaveri delle loro mamme, e se solo fossimo stati zitti e del 
          tutto nonviolenti, avrebbero sistemato ogni cosa. Una buona fetta di 
          tragedia sta in questo. E in chi ci ha bruciato, una volta di più, 
          pezzi di cuore e di cervello. Una classe politica monnezza, con per 
          cupola esterna i delinquenti di Tel Aviv e Washington e, per quella 
          interna, l’uomo della Goldman Sachs, quello della confindustria e 
          quello del Vaticano. Una classe ormai pasolinianamente omologa, 
          brigantesca, corrotta dal primo all’ultimo, dove il più pulito ha la 
          rogna e va a braccetto dell’avversario appestato (vedi Berlusconi che 
          soccorre il D’Alema sospettato di fondi brasiliani e il bombarolo di 
          Belgrado che corrisponde sostenendo il compare contro i fischi dei 
          giusti), dove oggi la massima preoccupazione di questi lestofanti è 
          soffocare, a colpi ipocriti di 
          privacy, gli ultimi sprazzi deontologici dei giornalisti. 
          La parte più formidabile in commedia, però, va riconosciuta a 
          Bertinotti. E’ forse l’unico, tra i rottami dell’associazione a 
          truffare, a godersela senza ombre di tragico. Catturato nel 1993 
          quanto era sopravvissuto al craxismo-occhettismo per un futuro mondo 
          migliore in questo paese, lucidamente, scientificamente ne ha 
          perseguito la distruzione, passo passo, di arretramento in 
          arretramento (ovviamente novista), 
          fino a regalare ai padroni la disintegrazione dell’ultimo ostacolo al 
          trionfo dell’agognato protocapitalismo tendente al feudalesimo, magari 
          attraverso una fase fascista. Ne ha avuto in cambio lo scranno del 
          vigile nel traffico di Montecitorio, macchina blù, frequentazioni vip, 
          magari pruriginose, ovazioni da Azione Giovani e Cielle, voli di Stato 
          (legittimi?) alle nozze delle baronesse albioniche. Non ha sbagliato 
          una mossa. Chissà se l’arrampicata gli sarebbe riuscita così rapida e 
          incontrastata senza il coro panegiricista di quella brigata di 
          femministe ginocratiche, ma devote al maschio capobranco, giornaliste, 
          parlamentari, che al confronto la guardia del corpo di Gheddafi è una 
          covata di gattine. Non è un film dell’orrore immaginarsi quote rosa 
          con precedenti come Melandri, Armeni, ancella nella stazione Cia di 
          Giuliano Ferrara, Menapace-Menaguerra, Deiana, Sentinelli, Nocioni, 
          Sereni, Dominijanni, Turco, Sgrena, Azzaro, Finocchiaro… Signore alla 
          Rice, Thatcher, Albright, Meir, Merkel ne menerebbero vanto. Certo, i 
          maschi della nostra classe politica non avrebbero nulla da 
          invidiargli. Forse, mi sia consentito l’infernale dubbio, è ancora più 
          questione di classe che di genere.  
          
            
          
          Ora c’è una corsa che sembra quella del 
          cinodromo verso il coniglio rosso che alla Piazza del Popolo ha detto 
          marameo. Dalle Alpi al Lilibeo è un  frastuono assordante che urla: 
          sono io il comunismo vero, giusto, onesto. Anzi, spesso si intrasente 
          nel sottofondo un sottile ma convinto: sono io il capo del nuovo 
          comunismo, vero, corretto, eccetera. C’è di tutto. Prescindendo da 
          quanto cercano di rappezzare nel Palazzo i laceri reduci della 
          ritirata di Russia, abbiamo tutto un bestiario di corvi e capovaccai 
          (avvoltoio della regione centrale) che astutamente si erano posti alla 
          finestra mentre nel palazzo dei notabili l’appartamentino di sinistra 
          andava in rovina. Pronti a scendere in picchiata sulle folle rimaste 
          all’aperto. Cosa vi fanno pensare nomi come Folena, Tortorella, Salvi, 
          Occhetto, Novelli, Ruffolo, Spini, Veltri, Patta, Curzi, Salvato, o 
          sigle come Punto Rosso, Network delle comunità in movimento, Attac, 
          Arci, Cgil, Uniti a sinistra, Per la sinistra, Leoncavallo,  Essere 
          comunisti, Forum per la Sinistra, Forum per la sinistra 
          europea-socialismo XXI, trotzkisti qua trotzkisti là e chi più ci 
          crede più ne metta? E’ l’ora dell’adunata e le trombe sono quasi più 
          dei convocati. Per tutti penso a un prototipo: accademico, autore 
          prolifico, direttore di alcuni 
          house organ di vasta copertura geografica e di ridottissima 
          copertura di lettori, sostenitore alla morte delle rivoluzioni lontane 
          e altrettanto dei Veltroni vicini che brindano al serial killer Simon 
          Peres-Capo di Stato, mentre riposano i piedi sul cuscinetto di voti 
          dal Nostro graziosamente offertigli. Chiamiamolo Lucky Baciagallina. 
          Leader di comitati di solidarietà e però dichiara  guerra a chi, 
          magari da quarant’anni e molto meglio, fa solidarietà con lo stesso 
          interlocutore di là dal mare e poi, visto il fallimento di questo 
          assalto al cielo, fa una capriola e diventa spietato accusatore dello 
          stesso comitato per aver fatto la guerra a chi fa solidarietà. Con 
          doppio salto carpiato si intrufola poi nella stessa casa  del 
          concorrente già da obliterare e ricomincia un’altra scalata. Dal che 
          si vede che il modello Palazzo sa diffondersi fin negli 
          slums della politica. Un 
          virtuoso! Perciò occhio, compagni, prima di farsi mettere cappelli 
          intesta! Chè poi quel cappello te lo calano sugli occhi e non vedi più 
          niente e magari te lo cambiano in corsa e manco te ne accorgi che stai 
          votando per il campione italico di Olmert. Ma su, siamo buoni, non è 
          detto che anche il più curvacelo e flessibile non possa redimersi 
          ritrovando una spina dorsale dritta e puntata nella direzione giusta. 
          Che in ogni caso – e questo nel nostro paese va sottolineato sempre - 
          non è quella dell’ego. 
          
            
          
          In un’assemblea post-9 molta brava gente 
          ha voluto riflettere sul cosa fare dei rottami sparsi della sinistra, 
          su cosa ricuperare e come utilizzarlo per costruire una barca che 
          regga i marosi, anzi gli tsunami, a venire. Idee, proposte, auspici, 
          poca autocritica. Mi preme segnalare un intervento nel segno, in 
          controtendenza, del ripartire “dall’alto”, anziché dal basso. Forse 
          non s’intendeva apertamente che i lavori sui rottami e sui territori 
          non compromessi dovessero essere ordinati e guidati dall’alto, magari 
          di una cattedra, da gerarchie preesistenti e prestabilite. Forse 
          andava compreso che noialtri, avendo il perfetto controllo dello 
          strumento “teoria”, la dovevamo far scendere a pioggia benefica sulle 
          masse da organizzare. In entrambi i casi opportuna risposta venne 
          dall’ intervento successivo che rovesciava l’apodittico assunto e 
          riferiva quanto ne era venuto in Rifondazione a lui e a tutti da 
          un’impostazione del genere. Al catechismo precostituito, spesso 
          sclerotico più di un dinosauro nel  Museo di Scienze Naturali, 
          opponeva la sconfinata messe di innovazione, invenzione, creazione che 
          spumeggia nelle lotte di massa di questi anni, dai NoTav ai NoDalMolin, 
          da Serre ad Acerra, dai NoPonte ai NoMose, dai metalmeccanici 
          fischianti e scioperanti ai precari e pensionati marcianti e poi nei 
          mille e mille gruppi, variamente organizzati e denominati, che, 
          incontaminati e irriducibili, sono cresciuti su tutto il territorio. 
          Qui non è che si voglia fare lottacontinuisticamente l’esaltazione 
          dello spontaneismo. E’ che non essendoci né partito, né lotta 
          anticapitalista generalizzata, questo è quanto offre il convento. E 
          non è poco. Perché prendendosela con il tunnel in Val di Susa si è 
          imparato a capire cosa il capitale fa all’ecosistema e alla convivenza 
          civile, opponendosi alla base degli sterminatori Usa a Vincenza, si è 
          visto in faccia la mostruosità dell’imperialismo e l’oscenità dei suoi 
          corifei. La strada della lotta di classe consapevole è aperta, tocca 
          farla entrare nella rete di tutte le altre strade. Tocca farla partire 
          da chi aveva capito tutto del capitalismo/imperialismo e farla 
          arrivare dove ci porta il cuore 
          (per ridare dignità al titolaccio di un pessimo libro). Non l’euro. 
          Non la poltrona, E su questo, mi pare, che ci tocca lavorare, con la 
          demolizione della falsa informazione – terrorismo, estremismo, paura, 
          securitarismo – in prima linea. 
          
            
          
          Chi fa questo da quarant’anni (Piero, 
          nella dedica sul libro ho scritto “da trent’anni insieme”. Sbaglio: da 
          quarant’anni) è Piero Bernocchi. E sono da qualche tempo i Cobas. Non 
          faccio l’agiografo alla Gagliardi per Bertisconi, sto ai fatti. Basta 
          pensare a quanti hanno mantenuto gambe salde, sguardo acuto, coerenza 
          totale (e stupefacentemente pelo nero) dalla rivolta del ’68 in qua. 
          Basta pensare che quando, con il “governo amico” la sbracatura fu 
          cieca e generale e il “manifesto” bombardava chi aveva osato definire 
          Damiano “amico dei padroni”, quando i più esagitati propugnatori della 
          nonviolenza, i più integerrimi apostoli del pacifismo, quelli della 
          “scuola pubblica e basta”, i più appassionati lottatori di classe si 
          misero a nuotare nella corrente della restaurazione sociale tipo ‘800 
          e di un colonialismo genocida, non c’erano che Cobas e cani sciolti 
          attorno al ragazzaccio smanierato Bernocchi che, temerariamente, aveva 
          chiamato a raccolta una possibile resistenza. Duecento alla 
          celebrazione ciampian-bertisconiana dell’Italia in armi. Trecento 
          sotto Palazzo Chigi quando se la fece sotto e la mandò in Afghanistan 
          anche chi aveva spergiurato no all’imperialismo. Decine di migliaia in 
          corteo contro l’“amico dei padroni”, per il “manifesto”tanto 
          iniquamente diffamato. E, via via, fino alla rotta tipo Stalingrado 
          degli zombie di Piazza del Popolo. C’erano anche Cremaschi, 
          Turigliatto, Ferrando. Evviva. Ma, rispondete con sincerità, se 
          Bernocchi da solo non avesse retto, tra contumelie e irrisioni, quanti 
          ci sarebbero stati, quanti saremmo stati a iniziare davvero un nuovo 
          ciclo? Fa tenerezza anche qui il “manifesto” che, con perizia da 
          funambolo, si è mantenuto in equilibro tra le due piazze, innamorato 
          com’era di Mussi e della sua rivoluzionaria scissione (ma poi, ohibò, 
          Mussi non c’era neanche nella piazza dei relitti). In equilibro, però 
          vagamente squilibrato verso l’apoteosi che l’intruppamento dei tre o 
          quattro sinistri “radicali” del parlamento avrebbe dovuto celebrare in 
          quella piazza. 
          
            
          
          Ma davvero pensavano quelli del 
          “manifesto”, quelli dei partiti-cortocircuito “di lotta e di governo”, 
          che dopo aver rivoltato il programma dell’Unione come un guanto nel 
          suo contrario, dopo essersi stesi a zerbino davanti a Olmert, Bush e 
          Montezemolo, con per politica solo l’occasionale mugugno di Ferrero, 
          costoro potessero raccogliere più gente di quante ce ne sta in nella 
          sala d’attesa della stazione di Sgurgola di sotto? Hanno tutti dato 
          prova di grandissimo fiuto, di stretta sinergia con il comune sentire 
          del “popolo di sinistra”. Grande classe politica, grande categoria 
          giornalistica! Epperò ecco che, a sabato 9 giugno concluso, il 
          “quotidiano comunista” ha saputo raddrizzare la barra, cazzare la 
          randa e prodigarsi in compiacimento per i vincenti e in irrisione dei 
          perdenti. Ottimo, che resti sulla buona strada. Possa succedere la 
          stessa cosa a Salvatore Cannavò del nascituro partito di “Sinistra 
          Critica”, commendevole animatore della lavanda gastrica 
          post-bertinottiana. Ne ricordiamo gli entusiasmi smodati - e 
          ferocemente censori nei confronti di chi dissentiva – per i 
          provocatori serbi di Otpor, prima grande prova di “rivoluzioni di 
          velluto”, cioè di colpi di Stato “di velluto” (si fa per dire) 
          pianificati, diretti, finanziati da “sinistri critici” come 
          National Endowment for Democracy, 
          Einstein Institute, Usaid, Open Society del sionista George 
          Soros e altre centrali 
          della destabilizzazione imperialista di Stati non sottomessi. Se non 
          ha rivisto quel particolaruccio il discepolo di quell’altro 
          confusionario ammazza-Milosevic di Livio Maitan, c’è da preoccuparsi 
          per i destini del gruppo che pure annovera il grande Turigliatto. 
          Quanto al “manifesto”, che tutti sosteniamo, chieda scusa a Piero 
          Bernocchi. Noi gli diciamo grazie.   
          
          
          
        
          
           |