MONDOCANEarchivio

                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

 

 

Pellegrini della rivoluzione tra Caimito, La Higuera e… Prodinotti, con addosso pacchetti sicurezza
L’ASSE DEL BENE E LO STATO CHIAVICA

 

08/11/2007

 

 

Il rivoluzionario, motore ideologico della rivoluzione in seno al partito, si consuma in questa attività ininterrotta, che finisce solo con la morte, a meno che il processo non si estenda su scala mondiale. Se il suo impegno rivoluzionario si affievolisce quando i compiti più urgenti vengono realizzati su scala locale e l’internazionalismo proletario viene dimenticato, la rivoluzione che egli stesso dirige cessa di essere una forza propulsiva e affonda in tranquillo letargo, di cui approfitta il nostro inconciliabile nemico, l’imperialismo, per riguadagnare terreno. L’internazionalismo proletario è un dovere, ma anche una necessità rivoluzionaria”.

(Ernesto “Che” Guevara)

 

Tremo per il mio paese se penso che Dio è giusto

(Thomas Jefferson)

 

A proposito delle due citazioni: Cuba sì, Iraq no

La prima citazione, quella del Che, è dedicata a coloro che frequentano le ambasciate e gerarchie di paesi comodi, promettenti, poco compremettenti e remunerativi e che gli dedicano onorati volumi di saggi e apologie, ma che quando all’angolo della strada compaiono i taliban, la guerriglia irachena, Hamas, cioè i non-nonviolenti, politicamente scorretti, ma resistenti ai carnefici dei popoli e delle classi irriducibili, fugacemente si scappellano, si voltano dall’altra parte e passano sul marciapiede opposto. Quando non fanno finta di non vederli.  Quando non arricciano le delicate froge e, nettandosi le mani con le pagine de il manifesto, sospirano che questi non hanno un chiaro progetto politico, laico e socialista, e che tutto sommato, dal nostro imperfettibile punto di vista europeo, sono un grande e intrattabile casino. Le dame chic de il manifesto arrivano a propalare le voce di coloro che sostengono la permanenza, nei paesi occupati e straziati, dei nostri killer seriali di massa, cioè di coloro che hanno innescato tutto l’ambaradan, perché “altrimenti è il caos”. Dunque  tocca a chi ci sa fare, è bianco, civilizzato, cristiano. Come i missionari di Cortez, o i comboniani in Sudan. Se sull’Iraq e Afghanistan la vincente demonizzazione degli ex-governanti è stata  vincente per coprire sotto un telo di repulsione sia la più orrenda carneficina imperialista dai tempi di Pizzarro e del Generale Custer, sia l’eroismo  e l’efficacia di una resistenza alimentata da popoli interi, in Palestina la logora demonizzazione degli ”integralisti islamici” si è accompagnata  a una riuscita corruzione dell’élites dirigenti. Il loro tradimento ha chiuso la bocca e fatto incrociare le braccia a tanti solidali con la Resistenza palestinese dalla facile puzza al naso. Incredibile che resti quasi solo a denunciare la nazificazione di Israele il gruppetto di onesti ebrei capeggiati dai Canarutta, dagli Astrologo, dai Forti, Damascelli, Treves, Terracini

 

La seconda citazione mi è un po’ estranea solo per il riferimento all’entità di dubbia esistenza brandendo la quale hanno fatto del mondo un no limits per lupi mannari e beoti. Ma va bene per quel paese che si è fatto chiavica: un multisale-pozzo di S.Patrizio, con spazi, sotto la cupola mafiosa, adibiti a macelleria sociale,  a bordello, a parco delinquenti parlamentare, a cerebrolesione scolastica, a pedofilia e pedoprostituzione (soprattutto pubblicitaria televisiva: complimenti a Fiona May e a Licia Colò per il loro prossenetismo Kinder), arti marziali preventive, globali e senza regole, laboratorio del falso e della patacca, atelier della paura, bottega Ku-Klux-Klan, museo delle mummie operaie, giovani o pensionate, peep-show con ologrammi di sinistra (Bertinotti, Vendola, Ferrero, Menaguerra, Ingrao, Sansonetti…). Con ai piani nobili, in palchi stuccati d’oro, serviti da afghani in guanti bianchi col papavero all’occhiello, i Geronzi, i Draghi, gli euro banchieri e, via via, i padrini delle grandi organizzazioni degli amici degli amici. All’ingresso, a guardia del filo spinato, in modo che tutto proceda nella luce del sole che sorge libero e giocondo, manipoli, coorti e legioni. Ora senza camicia nera, i capi vestono come Dini e Amato, la truppa a cranio rasato nudo, o con basco.

 

Se quel dio del buon Jefferson ci fosse e fosse giusto e non quel mazzabubù con cui i preti di ogni colore, nero, bianco, arancione, ci lisciano il pelo e ci spaccano la testa, non da tremare per il nostro paese ci sarebbe, ma da far salti di giubilo. In mancanza di tale divinità, accontentiamoci delle nostre forze. Che, alla faccia degli ignavi di cui alla prima citazione, hanno per avanguardia i partigiani iracheni, taliban e palestinesi. E domani, vedrete, anche quelli sudanesi, siriani e a seguire. E quando ai venezuelani, boliviani, cubani ed ecuadoriani toccherà rispondere a busse e briscole agli invasori Usa, con i loro Osama, Maliki e Karzai, e quando ai culi di piombo che fin lì gli davano pacche sulle spalle e ne ricevevano medaglie e prebende verrà la sindrome degli ”estremisti, violenti, terroristi”, di avanguardie ne avremo un vero fottìo e sarà a quel multisale-chiavica che toccherà tremare.

 

Dal Che a Mastella

Ragazzi, tornare da un itinerario centro-sudamericano, tra le casematte delle brigate di lavoro per Cuba e i picchi della cordigliera dove hanno trafitto il Che e dove, dopo quarant’anni di dittatori, macellai yankee, vampiri multinazionali, oligarchie mignatte, ora si apre sul continente desertificato l’ombra amplissima della pianta seminata dal “guerrigliero eroico”… tornare da lì a Mastella-De Magistris, Prodi-rumeni, sinistre-accordo sul welfare, corteo del 20 ottobre-pacchetto sicurezza, femministe che, depistando a beneficio di Bush e Prodi, vedono una macelleria mondiale capitalimperialista solo sub specie del maschio che stermina femmine, vi giuro che è dura, quasi raccapricciante. E’ come passare da una serpentina di Maradona a una telefonata di Moggi.

 

Brigate di lavoro volontario: chi c’è e chi ci fa

A Caimito, brulicante villaggione tra gli aranci a una quarantina di km dall’Avana, c’è da decenni un acquartieramento per quelle brigate di lavoro volontario che, create dal Che, sono diventate una delle sfaccettature della solidarietà da e per Cuba, da e per la sua scelta di percorrere altre strade rispetto al paradigma universale dello sfruttamento del forte sul debole, dell’ingiusto sul giusto, del cannibale sull’uomo. Altre strade che, come tutti possono vedere, per quante cortine fumogene e specchi deformanti l’accoppiata Bush-D’Alema (il tè lo serve Bertinotti) le mettano davanti, si stanno allargando e divaricando in mille direzioni, creando una nuova e fitta viabilità su tutto il continente.  Una viabilità su cui procedono centinaia di milioni di persone, bianche, brune, nere, gialle, rosse, tutte quelle che, prima, erano ciò che da noi sono sempre più i rumeni, rom, marocchini, albanesi: Untermenschen, dicevano i nazisti, sottouomini. Untermenschen, dicono oggi in ebraico, ammazzando palestinesi, gli israeliani. Grazie al bushiano 11 settembre gli Untermenschen hanno fatto la cortesia di centuplicarsi.

 

 A Caimito la brigata europea era composta da nazioni e lingue come la maltese e l’olandese, la spagnola e l’irlandese, la kazaka e la ceca, l’italiana e la tedesca e se ci fosse stata quella rumena sarebbe stata accolta e celebrata come tutte le altre. Nei lavori dei campi ci si dava una mano e, se si competeva, si competeva per Cuba. C’era, è vero, qualche rimasuglio di protervi fuorifase che vedevano le cose in verticale, con loro in cima. C’era qualcuno che, non preoccupato di sapere un fischio di Cuba e della sua lingua, aveva preso la brigata per “Avventure nel mondo” o, peggio, per il Club Mediteranée e dava il meglio di sé toccando il culo alle compagne delle pulizie e passando le serate cazzeggiando addosso a fiumi di rum. Devo però dire che ai meno stronzi capitava che si strappassero dalle orecchie l’ipod e mollassero l’ottima birra Bucanero per venire ad ascoltare chi gli spiegava come a un’isoletta di undici milioni di volenterosi era riuscito a dribblare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e, con questo, l’ignoranza, la miseria, la cattiva salute, lo sbraco ambientale, il precariato, Padoa Schioppa, il razzismo e Veltroni. In ogni caso il 90% dei 130 brigatisti passava dall’incontro con il prestigioso economista marxista allo scambio con l’esperto di politica internazionale, dal Museo della Rivoluzione all’Associazione delle donne o dei giovani comunisti, dall’ospedale senza ticket e liste d’attesa di Pinar del Rio, alla sua università, gratuita come tutte, alle meraviglie tropicali del Parco Nazionale di Vinales e alla bioagricoltura degli “orti urbani” dell’Avana che contribuiscono a dare a Cuba la sovranità alimentare. Di sera, poi, si imparava la salsa per mano a provetti ballerini, si cantava e qualcuno amoreggiava. Nel teatro scolastico di Guayabal, o sul palcoscenico della Casa dell’Icap (Istituto Cubano per l’Amicizia dei Popoli) bambini o artisti di rango ti facevano vedere come si fa. Il pensiero correva alla scuola aziendalista di Berlinguer-Moratti-Fioroni e alle elargizioni di costoro alle scuole per montezemolini e ratzinghini. Il pensiero correva anche alle nostre campagne desertificate dalla chimica e dalla migrazione forzata degli espulsi nelle periferie di Veltroni.

 

 Amici o idolatri?

I veri amici di Cuba non si spellano le mani di applausi  per la capra cubana che, essendo rivoluzionaria, è una star rispetto al misero ovino borghese. I veri amici di Cuba quando una capra cubana è stortignaccola, glielo dicono ai cubani. E si intenda cosa intendo per capra. I veri amici di Cuba si fanno il culo per la rivoluzione cubana ovunque sia aggredita o diffamata, ma evitano di fare i sicofanti, perennemente in ginocchio davanti a icone cubane, che, da adoranti, al primo inconveniente si trasformano in Angela Nocioni (quella che su Liberazione sparava contro Cuba cazzate fornite dall’arsenale di Miami). Dunque, che gli vada o no, parlerò di qualche ombra, tra le note luci sfolgoranti. Sono rivoluzionari, questi cubani, e la rivoluzione la stanno diffondendo in mezza Sudamerica, ma mica sono cherubini! E a volte, pur essendo lo spirito fortissimo, la carne, dopo tanti anni di tener duro, prolassa un pochino. E così te la devi vedere con il dirigente dei giovani comunisti che, anziché darti risposte sul perchè le sette evangeliche, tentacoli dell’imperialismo, dilaghino nell’isola, ti da formule  memorizzate sul rispetto di tutte le religioni. Bella cosa, ma non una risposta. Diceva il Che: attenti a burocrazie e gerarchie, rischiano di mangiarsi le più belle rivoluzioni! E così hai l’uomo del Ministero della Cultura che sfotte un po’ troppo l’Unione Sovietica, tanto per non farsi dare dello stalinista (che poi nessuno a Cuba è mai stato) dai grilli parlanti europei, dimenticando che quel paese ha fatto navigare il rosso vascello cubano, soffiandogli nelle vele, per una trentina d’anni. Farà piacere a Prodinotti, noi non ne abbiamo bisogno.  Su altre ombre piomba la torcia Fidel  con le sue campagne contro burocrazia e corruzione. C’è burocrazia? Sì, ma sta alla nostra come la ragnatela della mia dispensa sta a una rete a strascico. C’è corruzione? Sì, ma sta come un Kleenex al rotolone italiota che si dipana da Fiorani a Fassino, dalle banche alle telefoniche, dai pregiudicati in parlamento ai ras degli enti locali e ai boss della criminalità organizzata. Sempre che si possa ancora parlare di una criminalità organizzata separata dal resto delle istituzioni. E ogni giorno i fatti urlano che non lo è.

 

E, annegando nelle fiumana rossa che lungo il Malecon, armata solo di volontà e sovranità, promette resistenza o morte allo psicolabile che minaccia lapilli e ceneri dalla  Casa Bianca, corre il pensiero anche ai Fori Imperiali, imbrattati invece di missili e carri armati, nonché di ambasciatori Usa e Nato e ruffiani di Stato vari, con la benedizione di un  Bertinotti con la spilletta della pace infilzata nell’ennesima casacca nuova griffata Potere. E non si poteva non pensare ai cento e cento vessilli del terrorismo imperiale infilati nel corpo prostituito del nostro paese, vedi Vicenza, quando nella Tribuna Antimperialista dell’Avana alte sulle nostre teste crepitavano nel vento – e sul muso degli assassini - le cento e cento bandiere nere delle vittime di cinquant’anni di aggresione USA, degli innocenti pugnalati alle spalle da chi nel covo di fronte, l’Ufficio d’Affari degli Stati Uniti, insiste a cospirare per rimettere i ceppi a questo popolo. Quel palazzo dei brindisi e banchetti per i “dissidenti”, cari a D’Alema e Bertisconi, che lì vanno a raccattare mensilmente l’onorario del tradimento e del sabotaggio. E’ lì che si fanno un pippone giurando di riprendersi ville, bordelli e tenute, consegnare tutto il resto al santolo a stelle e striscie, corredato di mafia, azzardo e droga, e tornare a farsi lucidare le scarpe da un popolo di sciuscià.

 

Democrazia? Democrazia!

Siamo il paese che da Bush ha imparato come si fanno – rubano - le elezioni. Con un bonus in  più: chi arriva primo, ma con appena il 25%, viene gratificato con il 60% dei seggi. S’è visto anche recentemente, in primarie dove il re era già incoronato, in un referendum sindacale dove chi giudicava che il vertice della Trimurti stava al governo come il “premier” Al Maliki sta a Bush, restava fuori dalle assemblee, chi era precario restava fuori e precario, chi valutava l’accordo sul welfare  (in italiano “benessere”, pensate che faccia!) un’autentica chiavica da far rosicchiare d’invidia Berlusconi e Adam Smith, lo si criminalizzava dicendo che stava minando l’unità sindacale e, peggio, il governo di “centrosinistra”. E a chi non gradiva liste elettorali blindate, con candidati – utilizzabili solo se pieni di quattrini per spot e bagarini di voti – nominati dai rispettivi monarchi nella misura in cui si dichiarano sodomizzabili, si diceva che, se non gli stava bene, andasse in Birmania. A questo riflettevo in quella stradina di Guayabal, villaggetto fuori l’Avana precipitato nell’oscurità dal ciclone del pomeriggio, dove un  centinaio di persone, donne, uomini, vecchietti, bimbetti, stavano radunati, nella fioca luce di una torcia, ad ascoltare la segretaria del Poder Popular che gli chiedeva di indicare i propri candidati a delegati del Consiglio Municipale. Erano in atto le elezioni amministrative in tutto il paese. E a Cuba si fa così. Si formano capannelli, la gente discute, poi uno alza la mano e dice “Pedro”, vuole candidare Pedro. La segretaria: perché Pedro? Lui: perché è in gamba, mia ha dato una mano a riparare il tetto, ha difeso i miei interessi al Consiglio Comunale dopo l’ultimo uragano. La segretaria: chi è d’accordo per Pedro? Si alzano un’ottantina di mani. Pedro è il candidato delegato di quella strada. Se ne fanno altri due allo stesso modo. Costoro e Pedro si presenteranno poi candidati di quartiere e, se eletti, con quelli degli altri quartieri, candidati al Consiglio Municipale. Se Pedro entra nel Consiglio, può andare avanti, nelle elezioni politiche, con lo stesso meccanismo fino al Parlamento Nazionale. Ma se dopo un po’ l’assemblea popolare giudica che non ha lavorato bene, lo revoca e Pedro torna a riparare tetti. Il Partito non c’entra, non candida, non suggerisce, non interferisce. Si candidano anche i dissidenti. Che dici, Bertisconi, che a Cuba non c’è democrazia perchè non c’è un tuo omologo titolato a scegliere i suoi prosseneti? A me pare che l’unico che possa correggere qualcosa qui sia il mio bassotto Nando: vorrebbe far votare anche i cani cubani. Forse il più antico amico e collaboratore dell’uomo uscirebbe finalmente da condizioni peggio dei Rom in Italia.

 

Delitti ambientali e primati ecologici

Sento che in Italia oltre tre milioni di persone si sono espresse contro gli OGM, quella robaccia con cui Big Farma, i farabutti della farmaceutica tipo Monsanto, vogliono espropriare i contadini di tutto il mondo e, sconvolgendo nel giro di due provette quello su cui la natura  ha lavorato per decine di millenni, offrono alla criminalità politica organizzata un ulteriore strumento, dopo fame, sete, uranio e bombe, per la strategia maltusiana dei popoli di troppo. Non ha dichiarato un esponente della cosca di Washington che il mondo si può mandare avanti con solo il 20% della forza-lavoro attuale? Riduzione alla quale lavorano alacremente anche gli zombie del nucleare, tornati vispi grazie ai catastrofismi del tutto strumentali dell’ammazza-serbi Al Gore, che a Kyoto ridusse a scherzetto un tentativo di porre un serio alt all’intossicazione planetaria. Mezzo milione di intelligenti cittadini italiani, poi, hanno depositato le firme per una legge popolare che lasci la gente padrona dell’acqua e la tolga dalle grinfie delle multinazionali degli avvelenatori e speculatori. Come successo in Bolivia, con barricate, candelotti di dinamite, assalti di popolo  e anche con una serie di ammazzati dagli sbirri di Bechtel e Suez. Mentre oggi a Cochabamba sono comitati di quartiere e di villaggio che gestiscono l’acqua dall’origine al rubinetto, da noi il “centrosinistra” se ne fotte altamente e, col culo parato dall’UE, accelera sull’autostrada della morte: nucleare, OGM, acqua a chi paga e se la beve manomessa da qualche SpA bersaniana. Pensavo a questo mentre, nella Brigata di lavoro, segavamo i rami secchi di frutteti a distesa d’occhio che non avevano mai visto un grammo di fertilizzante chimico o anticrittogamico, condizione per cui Cuba (che ha chiuso con il nucleare) ha il primato dell’agricoltura ecologica dell’intero continente e, prima nel continente, trae il 38% della sua energia da fonti rinnovabili. L’acqua che non gli scagliano addosso i cicloni caraibici è tutta dello Stato, anche se sulla potabilizzazione e sulla guerra alle bottiglie di plastica c’è ancora un po’ da lavorare.   

 

Dove impara i suoi pogrom Veltroni?

A Santa Cruz de la Sierra, Bolivia della piana sud-est, stronzetti e stronzoni in tonitruanti SUV, carognette vestite Prada, lardosi cafoni criollos in BMV, danno agli abitanti degli altopiani andini, ai minatori di Potosì, ai contadini aymara e quechua di dappertutto, del kollas, che sarebbe come Calderoli chiama rom e musulmani. Loro invece sono la Nacion Camba, quelli delle pianure, quelli bianchi, quelli evoluti. Quelli con la grana, soprattutto. Ottusi e volgari quanto vuoi, ma con la grana e un bonus in dollari e, fino a ieri, con il potere di fare quel cazzo che gli pareva. Nel paese più povero del mondo. E più schiavo degli Usa. Oggi producono pustole di collera alla vista che un miserabile kolla, perlopiù aymara puro, perlopiù cocalero,, perlopiù amico di Fidel e di Chavez, ha fatto della maggioranza kolla, india, il piatto della bilancia giustamente più pesante. Dopo mezzo millennio di esclusione, silenzio, dittature, stragi e ruberie creole, all’ombra del grande padrino, iberico prima, a stelle e striscie poi. Sconvolgente. Nella piazza della cattedrale si avvicendano - attorno all’ambasciatore Usa Philip Goldberg (collaudato nella distruzione della Jugoslavia) e ai suoi paramilitari colombiani importati come consiglieri, traffichini, pizzaioli, guardie del corpo - crocchi confindustriali ed ecclesiastici. Sono inviperiti dall’arretramento alla posizione di riccastri ladroni e basta. Studiano per vedere come allestire una secessione, con asporto delle ricchezze del paese, gas, petrolio e foglia di coca tornata cocaina, come in Colombia, che lascerebbe quell’indio impudente e le sue nazionalizzazioni con le pive nel sacco e farebbe della Nacion Camba un nuovo, splendido Kosovo, un altro glorioso Kurdistan dei narcocontrabbandieri Talabani e Barzani. In bella controtendenza con quanto sta succedendo, ai danni delle oligarchie e degli yankee, a Cuba, Venezuela, Nicaragua, Ecuador, Argentina e, appunto, Bolivia, e sta germogliando in molti altri paesi.

 

Verso il gemellaggio Santa Cruz-Roma

E così, nella maestosa piazza di stile coloniale, ecco che si festeggia, accanto a quella con la piovra nordamericana, anche l’irrobustita intesa con il Vaticano che, rasa al suolo la teologia della liberazione, banchettato con i generali argentini dei desaparecidos, affacciatosi su balcone sottobraccio a Pinochet, oggi beatifica, dopo ciarlatani e sanguisughe come Madre Teresa e Padre Pio, ben 500 santi martiri fascisti della Spagna ansiosa di tirannia clerico-fascista. Ma Evo è ancora là e va dritto per la sua strada, anzi a Valle Grande, nella grande cerimonia finale per il 40° dell’assassinio del Che, ha pure promesso di fare il socialismo del XXI secolo e di riprendere il cammino aperto da quel “criminale e sanguinario invasore della patria” di Ernesto Guevara (così la stampa di Santa Cruz sul prigionieri ferito, assassinato dagli sgherri del dittatore Barrientos su ordine Cia). E dunque, per ora, i fetori viscerali dei cruceni si devono sublimare in mera invidia.

 

Ci ho parlato, con questi, sotto le colonne e le vetrate dipinte di  un elegante circolo con camerieri in guanti bianchi (della stessa etnia delle donne con tre bambini al collo stese sotto i portici a chiedere soldi per il latte). Rigurgitavano ammirazione e gelosia per il modello italiano, dove un ministro può liquidare un magistrato che indaga su di lui, dove un “sindaco d’Italia”, comunista dalla nascita e “mai stato comunista”, può trascinare un governo, altri sindaci, prefetti e forcaioli mediatici, a un pogrom da Notte dei cristalli e annunciarci implicitamente “Boni, arriva il castigamatti, senza camicia nera, ma arriva”. Dove un governo brinda con l’eccellente Consiglio di Sicurezza Onu e con l’eminente Unione Europea per essere riusciti a inserire, in segreto, in liste nere, da acchiappo immediato, chi gli risulta “sospetto”. Niente più habeas corpus, obbligo di accusa, diritti di difesa, magistratura, tutto più facile, più rapido, più efficace.  Scherzavano, i miei interlocutori cruceni: “Un pacchetto sicurezza al giorno toglie i rompicoglioni di torno”. E rosicavano per aver noi fatto “pacchetti sicurezza”, a partire da quello Reale di trent’anni fa, uno almeno per legislatura, con quest’ultima, che ha a bordo i comunisti, addirittura al primato assoluto. Via via a riprendersi quello che un decennio “guevariano” ’68-’77, aveva tolto ai padroni. Pare che Gabriel Dabdoub, il Montezemolo di Santa Cruz, abbia chiesto per Veltroni, D’Alema e Amato, al rettore del’università la laurea honoris causa. Mentre il locale vescovo non vede l’ora di abbracciare Ratzinger, il panzerpapa che ha appena tolto alla ‘ndrangheta la seccatura di un vescovo antimafia come Giancarlo Maria Brigantini. Beati voi, sospirano i due, che avete politici e preti uniti nella lotta. Con in calce al pacchetto “guerra ai poveri” anche la simpatia di Nichi Vendola, governatore PRC di Puglia che qualcuno minaccia debba essere il futuro ras della Cosa Rossa.

 

Tra La Higuera e Santa Cruz. Un uovo di gallina.

Da La Higuera e poi, poco più sotto, da Valle Grande, aquilotti urbani incastonati nella cordigliera, letteralmente si precipita verso Santa Cruz. Sono sette ore lungo  cigli che ti guardano beffardi da sopra abissi inenarrabili, voluttuosamente costeggiati da pulmini con le ruote lisce come bocce da bowling, lungo sterrate di polvere o di fango, a seconda degli umori degli dei. Siamo quaranta, quanti occorrono per gonfiare l’abitacolo fino a far gemere le giunture. Sto incastrato su trenta cm quadrati, le ginocchia in bocca e, accanto,  un’ampia e ciarliera signora con nel cestino una gallina dalla testa chiocciante che esce da sotto il panno. Sull’altro lato un metticcio colto che affabula, ininterrotto e sussurrando, sulle infamie dei secessionisti e sui meriti di Evo Morales due argentini che annuiscono in solenzio: stanno a fianco dell’autista che sul cruscotto ha madonnine, santi e i gagliardetti della fascistoide Union Juvenil Crucenista, alla quale si fanno risalire gli ordigni esplosi a Santa Cruz davanti al consolato venezuelano e alla sede dei medici cubani. Quei medici che risanano gratis una popolazione che non aveva mai visto altro che il farmacista del paese. Un’ilare ovazione accoglie l’annuncio della signora che leva alto l’uovo appena fatto dalla sua compagna di viaggio e di vita.

 

Ed è l’ovetto della gallina “Marta” che mi fa riandare, in risalita, verso quel crocchio di casupole in vetta a picchi rocciosi e brulli, senz’acqua, senza alberi e senza storia, dove il Che scrisse le prime pagine di un libro di storia che oggi si sta riempiendo di nuovi capitoli, vergati da mani che usano gli stessi caratteri di allora. A La Higuera ci si arriva da Valle Grande in tre ore di macchina, fino a Pocarà, cento case con presidio medico cubano, e poi inerpicandos per altre tre ore a piedi, facendo precipitare sguardi esitanti in baratri senza fondo. Lassù, tra murales antichi e nuovi e grandi monumenti al “guerrigliero eroico”, qui trucidato per ordine Cia da un soldato renitente, ma alla fine ubriacato a forza per la bisogna (e al quale ora medici cubani hanno ridato la vista chiusa dalla cataratta), avevo chiesto a una botteguccia dai due scaffali qualcosa da mettere sotto i denti. M’avevano dato un uovo. Non avevano voluto un centesimo.

 

Il piccolo sacrario del Che è nella scuelita rifatta, finta. Quella vera, di fango, sta lì appiccicata, abbandonata. Ma il sacrario vero è quell’armata ostile di rocce negate a ogni solidarietà, di pendìì senza copertura e senza sostentamento, dove il tradimento del PC boliviano aveva fatto rifugiare gli irriducibili dell’amore per i diseredati di un paese al fondo dell’abiezione sociale e in vetta alla speranza di riscatto. Dove i Guevara, i Peredo, gli altri, avevano collocato l’ultimo granello di una semina destinata inesorabilmente a fiorire nel tempo. Le lacrime, più che le immagini stinte sulle pareti dell’escuelita, te le tiravano fuori quei venti tormentosi di vetta, quella natura impietosa e feroce nella quale si concludeva, stremata e disperata, la sorte dei mai arresi, dei soli contro tutto, oggi vittoriosi senza poterlo sapere mai.

 

A Valle Grande, primo sepolcro del Che, Fioroni non passa. Da La Higuera a Baghdad.

Da noi, una scuola trasformata in lupanare da suburra nel quale il capitale alleva  peripatetiche lobotomizzate e senza futuro, o in pollaio confessionale lastricato d’oro per chicchirichì  da coro, cantati da pennuti senz’ali. A Valle Grande, geometrica e ondulata cittadina inerpicata con leggerezza sugli irti colli preandini, dove il corpo del Che fu mutilato e, insieme ai compagni, seppellito in una fossa comune, si dipana tra entusiasmi e rimpianti la tre giorni di convegni del ricordo per convenuti da tutto il mondo. Allestita da Chato Peredo, fratello sopravvissuto ai guerriglieri caduti, si svolge tra teatri, istituti superiori e piazze. Dal palco dell’antico teatro spagnolo, odoroso di legno buono, un’anziana contadina ci legge con faticosa e meticolosa precisione una sua lettera di ringraziamento di fine scuola. L’ascoltiamo in mille, militanti, alternativi, qualche sopravvissuto dei fiori convertito a cose più robuste, reduci del MIR cileno (ricordate “Armi al MIR” contro Pinochet, di noialtri di Lotta Continua?), dell’ERP argentino, dei Tupamaros uruguagi, compagni cubani della Sierra Maestra, dell’Angola e della Bolivia. Tutti, tranne i cubani, sono stati sterminati, sconfitti. Ma i loro fucili, la loro guerra asimmetrica, si sono trasferiti al di là degli oceani, oliano oggi le armi e la perizia dei resistenti in Iraq, Afghanistan, Palestina. Già solo per averci provato, hanno ispirato una lotta che sta mettendo in ginocchio il mostro del terrorismo planetario. La campesina di Valle Grande arriva in fondo alla lettera e alza un viso illuminato da applausi, sorrisi, cori. Un gruppo di venezuelani, in tutte le occasioni di questa festa della vittoria i più scatenati nel fervore bolivariano per la Patria Grande, canta la rivoluzione. Abbracciano  la neo-diplomata Chato Peredo, “Urbano”, “Pombo”, i compagni cubani del Che nell’ultima impresa, il ministro boliviano dell’istruzione che è una piccola india rugosa sgargiante di colori, l’ambasciatore del Venezuela. Non è un’allieva scorticata dai nostri ministri dell’istruzione, da Berlingue-Moratti-Fioroni. E’ la milionesima alfabetizzata di un popolo che inizia la strada della conoscenza di sé e del mondo. La lettera l’ha scritta lei. E’ il ringraziamento ai suoi maestri cubani. In tutta l’America Latina questi volontari cubani, con il famoso metodo Yopuedo, spalancano e attivano intelligenze alla critica dell’esistente. Da noi l’alternativa è tra sottomissione e paraculaggine.

 

Bella Italia, amate sponde. Puntuali come i video di Osama dopo ogni barbarie statunitense

Torno in Italia in pieno pogrom anti-disgraziati, antigiovani (tutti “bamboccioni” perdigiorno e sbevazzoni al volante, tifosi licantropi, fumatori di spinelli e, dunque, assassini potenziali), anti-diversi, con la panza di Borghezio assurta ad Altare della Patria. Che colpo quell’assassinio di Tor di Quinto a Roma, che puntualità! Meglio delle epifanie del socio Osama bin Laden, pronte a oscurare qualche particolare efferatezza dello Stato Canaglia per eccellenza. Un Rom rumeno programmato alla perfezione. Dal caso? Nell’orgia di pogrom razzisti e di classe contro popolazioni di paesi che il nostro capitalismo ha disintegrato, chi parla più di ragazzi in strada verso la partita fulminati dalla polizia (attenti a non alzare la voce con il vostro coniuge all’autogrill: vi giustiziano seduta stante), o di bravi padri di famiglia, coltivatori di sei piantine di marijuana, massacrati in cella. In compenso c’è ampio e tonitruante spazio per la cattura dell’ “erede di Provenzano”, messa in calendario per quando fosse congruo. Magari per farci passare sopra sindaci e prefetti organizzatori dei nuovi carri blindati per gentaglia che non trova né lavoro, né sghei, o s’è vista nascere islamica o nomade. O anche per disperdere l’odore da polvere da sparo rimasta ad aleggiare dopo l’uccisione di un ragazzo in viaggio. Contemporaneamente va rovesciato l’assunto e va calcata la mano quando si tratta di quegli sgherri di Chavez che a Caracas hanno tirato  due candelotti su una decorosa marcia di fighetti dei quartieri bene che, appesi a un mazzo di carote a stelle e striscie, inneggiavano all’eliminazione del “despota” e ululavano  contro la modifica costituzionale che riduce l’orario lavorativo a sei ore giornaliere. Da noi la Costituzione che garantisce lavoro e sicurezza (sociale!) viene emendata in quattro assassinati sul lavoro al giorno e sette milioni di precari tanto per cominciare.

 

Ah, se Carlo Giuliani fosse emigrato in Venezuela! Dopo la satanizzazione dei rumeni e il trionfo di Stato su Lo Piccolo e, d’altra parte, dopo i vandalismi dei teppisti da stadio,  chi si ricorda più della megafrode di regime Why not,  nonché dei procuratori liquidati dalla lupara bianca di governanti da loro inquisiti per ladrocinio e truffa al paese. Tanto più che, con il ministro trafficone che rincorre l’esempio del dittatore Musharraf, decapitatore di una corte suprema non obbediente, noialtri siamo ancora dilettanti rispetto al nuovo ministro della giustizia Usa, Michael Mukasev (ovviamente della lobby ebraica, più onnipresente e onnipotente di Javé), che, quanto a passione dichiarata per la tortura, rincorre Torquemada. Chi pensa più agli sbirri incriminati per la Genova cilena del G8, ma promossi a più alti onori per aver  anticipato i tempi? Chi va più a sfrucugliare il sistema nazionale mafia-banche-classe politica - “abbiamo una banca!” - visto che con brillante operazione hanno preso il “boss dei boss”, mero racketero da estorsione di botteghe e appalti di quartiere? I padrini veri nelle banche, saettanti tra Roma e New York con una batteria di cellulari alle orecchie, si sganasciano di risate a vedere questurini sventolare pizzini. Chi si scandalizza più, visto che c’è sempre un Berlusconi che, imbattibile per impudicizia e rozzezza, celebra in pompa magna i pregiudicati Previti, Dell’Utri e i suoi Circoli. Al prossimo giro candidiamo al Quirinale direttamente Al Capone. 

 

Dal ghetto di Varsavia al ghetto di Gaza, passando per i ghetti di Pisa e della Magliana

Svaporate anche le misure dell’ultimo dispositivo Gestapo, intitolato “pacchetto sicurezza” e “decreto espulsioni”, con tanto di voto rifondarolo, di prammatica sotto ogni porcheria prodiana (tanto, dopo l’assenso al genocidio in Afghanistan…), ci si allena sulle baracche rom e rumene  di Pisa, Roma, ovunque, seguendo il manuale “Ghetto di Varsavia”, aggiornato in Ghetto di Gaza. Per ora tocca ai migranti, domani a tutti i poveri appena sollevano il cucchiaio, o, addirittura, un terroristico coltello.

 

Violenza sulle donne. In Iraq no?  Donne dell’ Ecuador.

Le donne che a Roma manifestano contro la violenza al loro genere, manifestazione in cui tutti dovremmo esserci, in molti battendoci il petto e facendocelo battere, partecipano dell’avanguardia mondiale della liberazione. E conto che questo le faccia mettere al primissimo posto della denuncia l’indicibile olocausto  di donne dei popoli in corso di obliterazione imperialista. Tra i quali qualche uomo anche c’è. Ma c’è chi di questo movimento rivendica l’esclusiva o il primato. Le ultrà femministe – momentaneamente prese in contropiede da una polacca che ha fatto ammazzare il marito italiano che voleva vedere la figlia e da una donna che avrebbe aiutato a stuprare e ammazzare un’altra donna a Perugia – non possono ignorare, all’ombra della lapide “gli uomini uccidono le donne”, una vicenda millenaria di madri che reprimono e sopprimono i propri figli, in senso proprio e figurato e, soprattutto, una totalità di madri, spose, figlie, sorelle, bombardate, torturate, massacrate, stuprate, buttate fuori dal mondo in Iraq, Palestina, Afghanistan. Per il cui ginecocidio le più prestigiose del movimento hanno addirittura votato in parlamento. I marines ne hanno appena stuprate e torturate altre sette nel carcere di Diwaniyah, sbattute dentro per ricattare mariti, figli, o padri,  forse partigiani. L’Ufficio dei Diritti Umani a Baghdad dice che è la prassi. Pensate che nella piattaforma della manifestazione nazionale delle donne contro la violenza non ci debba essere una riga, uno slogan, un vessillo anche per queste? Cercate, cercate. Per certune, quando le donne non appartengono alla razza bianca cristiana “civilizzata”, l’unica cosa che interessa e che le altre, poverette, non portino il burka. E qui mi viene da ricordare una ripida scalinata a Quito, in vetta alla quale uno scuola accoglieva un’assemblea nazionale delle donne quechua della Federazione capeggiata da Blanca Chancoso, figura di punta del movimento delle donne indie del continente A molte ponemmo domande circa il conflitto di genere in Ecuador, come veniva vissuto in un paese in preda a convulsioni laceranti, tra rivolte sociali e repressione dell’oligarchia fascistizzante. Con leggerezza queste donne superavano la tradizionale riservatezza e introversione della loro etnia, abituate dalla lotta a prendersi la parola su temi non più delegati a nessuno. “Siamo protagoniste di un movimento che è in procinto di rovesciare l’ordine esistente, un protagonismo guadagnato contro molte resistenze maschili. Quello che per noi è prioritario oggi e farci sentire e valere a fianco degli uomini nello scontro decisivo con il vecchio potere. O ci si va uniti, o si perde. Quei conti tra i generi che ancora non siamo riusciti a regolare, li abbiamo imparato a conoscere, ma verranno  tempi e  condizioni migliori per occuparcene. Oggi la scelta è tra fascismo e rivoluzione e, dunque, ci basta fare in modo che le contraddizioni non intralcino la lotta. Questo non può non porre le basi per il confronto e l’intesa futuri”. Hanno detto bene, hanno detto male, le donne di Quito? Lo dicano le donne.        

 

Chi ha Fidel e chi ha Amato e De Gennaro e un sacco di bertisconi

 Quelli hanno Evo Morales, il gas nazionalizzato e gli indios risorti nel nome del Che, Hugo Chavez e i suoi proletari e sottoproletari alla conquista del socialismo del XXI secolo, Fidel e la sua democrazia partecipativa, Rafael Correa in Ecuador che butta a mare la base Usa di Manta, Kirchner e signora in Argentina che, perlomeno, sbattono porte in faccia alla banda Bush, e Daniel Ortega e i Sem Terra e Le Farc e il movimento indigeno in Perù e i Mapuche cileni che denudano la signora presidente, cara a Washington e alle femministe tanto integraliste quanto di bocca buona. Da noi  un Bertinotti da Zelig si esalta perché l’Italia ha guadagnato un protagonismo nel multilateralismo… Prodi è stato più autonomo dagli Stati Uniti…  Le spilline della pace nelle orecchie  gli risparmiavano il frastuono delle ruspe per l’allestimento della base necrogena di Vicenza, della fabbrica dei serial killer aerei F-35 a Novara, del rombo dei voli Cia con sequestrati a caso nello spazio aereo sovrano nostro, il clap-clap-clap di Condoleezza per essere entrata l’Italia, di soppiatto, nello Scudo d’assalto reaganian-bushiano. Mentre un certo rispetto per l’intimità altrui gli imponeva di non vedere i servizietti fatti da Prodi al sodale israeliano Olmert. Quelli, di là dal’Atlantico, hanno eserciti e polizie del popolo che bloccano colpi di Stato fascisti e imperialisti e, di contro, manifestanti in mocassini Todd’s e tacchi a spillo che marciano per il caviale e il latifondo. Da noi eserciti e polizie fanno altre cose a Bolzaneto, nella Diaz, o in autostrada. 

Noi abbiamo un arruffapopolo ex-comunista alla Stalin, oggi fascista di pongo, che, cementificata in partito un’armata di bulimici, si muove come per aprire la strada ai fascisti all’uranio impoverito. Abbiamo un dinastia di papi che questi fascisti, oggi di Spagna ieri di Croazia, li santificano postumi e li incoraggiano attuali, un presidente della Repubblica che perde ogni immaginabile occasione per  risparmiarci il suo ampolloso veteroinciucismo patriottardo e destrorso. Abbiamo anche Ingrao, che sostiene la missione in Afghanistan e Flavio Lotti e Lidia Menaguerra e la Tavola non più della pace (quella tanto è andata), ma per i “diritti umani”. E abbiamo forze dell’ordine costituito e da costituire, che menano come kickboxers con egualitaria indifferenza per le diversità di genere ed età, o motivazione. Sono validi discepoli della scuola Mors tua vita mea di Berlinguer-Moratti-Fioroni, con corsi integrativi sui celebrati manuali “Guantanamo e dintorni” e sulle tavole “Come fare pulizia etnica” di Sharon-Olmert. Di fronte hanno cancerosi da amianto, inceneritori o discariche, cittadini antiguerra, pensionati inscheletriti, giovani vite desertificate e senz’oasi in vista. Ma a volte anche tifoserie, quelle che un tempo se la prendevano tra di loro e oggi, chissà com’è, quando gli sparano addosso e ne fanno la lebbra della società, tirano unite bocce a una polizia percepita come servizio d’ordine del nemico. E non è la “percezione” che conta, come ci dicono, quando si parla di caldo? Epigoni o prodromi di combattività sociale? Peccato per le teste rasate, le rune e i cori razzisti.  Per quelli si ringraziano Berlinguer-Moratti-Fioroni-Rutelli-Fini-Veltroni-Amato. E, di rincalzo, Bertissino e D’Alemotti che la strada e chi ci si sbatte l’hanno regalata alla destra. Ma forse questi esclusi e bastonati incominciano a capire che chi li spoglia e sbatte nel fosso della strada che porta al domani non sono né Omar, né Lupescu, ma qualcuno molto più elegante e molto più pulito. Agli scempi, dalle sue finestre con drappo arcobaleno, sorseggiando il tè, assiste sbigottita la giovane sinistra, rigorosamente nonviolenta e politically correct. E ti pare strano dopo quarant’anni di cura Pecchioli-Berlinguer-Occhetto-Bertinotti? Fa da rumore di sottofondo Bruno Vespa e tutto il suo cucuzzaro da avanspettacolo che blaterano sulla prova provata che se si fuma uno spinello nel pomeriggio, di sera si esce per tagliare la gola a qualcuno.

 

Amici, non c’è che da concludere che, davanti a tutto questo, hai voglia di solleticarti con progetti di correzione dell’esistente, un tempo chiamati col termine, poi rubato dai reazionari, di “riformismo”. Cito, visto che è tempo di ricorrenze, Mario Tronti, testa non da poco (su “il manifesto” accanto, pensate, all’albanese Astrit Dakli che, pur omaggiato per il suo libretto “I rifugi di Lenin” dai sepolcri imbiancati Rossanda e Parlato, esercita la sua viscerale slavofobia – nuova denominazione doc per anticomunisti – in un racconto di viaggio attraverso la Russia, vista attraverso fessure minimaliste, che, oltreché per fredda superficialità, si distingue per l’irrefrenabile voglia di sfottere sia l’Ottobre, sia quanto ne vive ancora in cuori, speranze, progetti). 

L’Ottobre sarà pure irrepetibile, ma serve per aprire l’immaginario e l’intelligenza a pensare cosa potrebbe accadere se si aprisse un processo di crisi dell’ordine costituito, La rivoluzione è impensabile, oggi, se non ritorna un passaggio di crisi del sistema che rimetta in moto la critica di tutto ciò che è. Non una crisi economica, non le file davanti alle borse o alle banche che vediamo ogni tanto in tv, ma una crisi politica, un conflitto tra grandi potenze per la ridefinizione degli spazi politici sui due oceani. E’ la geopolitica forse oggi il luogo di una crisi possibile, di un conflitto tra finanza-mondo e politica-mondo sulla riorganizzazione del Nomos della Terra.

E’ successo appena novant’anni fa. Volete che non possa risuccedere? Al di là dell’Oceano e di questo mare, con una bella mano dalla Mesopotamia, hanno già incominciato. Il sol dell’avvenire ora pare sorgere a occidente. E se non è una rivoluzione questa!

 

  

 

 

 

 

info@siporcuba.it

 HyperCounter