MONDOCANEarchivio

                                       di Fulvio Grimaldi

 

 

 

 

Omini di burro capipartito, boia mediatori di pace, narcotrafficanti internazionalsocialisti, contras palestinesi al servizio di Sion, Al Qaida dappertutto: le manovre estive della “Guerra globale al terrorismo”.

 

SPORCHI DENTRO, BRUTTI FUORI

 

04/07/2007

 

“Puliti dentro belli fuori” è la panzana di un’industria delle acque rubate. Sporchi dentro brutti fuori ne è la nemesi da cui si può vedere colpita la classe dirigente

 nostrana e mondiale. Metteteli un po’ in fila, come per una foto scolastica, e voglio vedere se non vi scappa qualche osservazione lombrosiana. Che non sarebbe poi proprio da Lombroso, il quale traeva convinzioni piuttosto razziste

 sui caratteri dei soggetti dalle fisionomie di partenza: ladro, assassino, prostituta, idiota, galantuomo, artista e via classificando. Qui guardiamo alle fisionomie d’arrivo, quelle che vita, comportamenti, pensieri, sentimenti, vizi e bagordi, porcate e ruberie hanno inesorabilmente scolpito sull’innocente materia prima.

 

La pulizia dentro e la bellezza fuori dell’omino di burro

E quelle sono davvero una documentazione che nessun discorso del Lingotto (Walter Veltroni, all’incoronamento da sovrano del Partito Democratico), o nessuna benedizione urbi et orbi possono smentire. Ricordate “l’omino di burro” che, tra scampanellii, ghirlande e festoni, trascinava i farlocchi nel Paese dei Balocchi da dove, dopo qualche fugace pippa, sarebbero poi usciti somari da macello? “Omino di burro”, il gigantesco Collodi aveva definito così il conducente di quella spedizione di morte travestita da perenne festa, facendoci immaginare un sorridente e untuoso figlio di puttana dalle flaccide gote in via di prolasso. Beh, (tirate il fiato, il periodo è lungo), non corrisponde forse, in perfetto combacio, al sindaco fuffa dai canini di caimano, quello della piazzetta dedicata al compagno Dino Frisullo, combattente della causa della minoranza turco-curda in via di cancellazione e anche quello della simultanea cacciata dei quattro rom di Roma nel deserto oltre il Raccordo anulare, via da scuole e ospedali? Contributo a quell’idea della sicurezza che, sotto Veltroni, tanta strada ha fatto da far cacciare a sassate due signore berbere che, alla Magliana, avevano voluto dar vita a un progetto di conoscenza con l’erezione in piazza di un autentico villaggio berbero, con relativa cultura, arte e gastronomia. Ma Veltroni non è quello delle pere vippiste cinematografiche e quello del degrado delle periferie e di tutti i servizi urbani; quello dell’ I care (mi prendo cura) e quello dell’inno alla sicurezza - leggi repressione – per reprimere gli effetti della macelleria sociale? Quello che, concepito, nato e allattato nel CC del PCI, ha fatto per 17 (diciassette) anni il leader della gioventù bolscevica italiana e ora – mai stato comunista! -  fa il leader  di un partito-fuffa che fa il verso ai Kennedy degli assalti a Cuba e al Vietnam e delle commistioni mafiose, al Clinton dei massacri balcanici e iracheni, a Sharon, uomo di pace – e a Olmert  - Viva la Sinistra per Israele. Una genìa di serialkiller da far impallidire Re Leopoldo I (ne fece fuori 20 milioni in Congo, a proposito di “unicità dell’Olocausto”)?

 

Diamo un’occhiata dall’alto della storia. Cosa va facendo questo  omino di burro, cocchiere di carri funebri? Non sta forse portando a termine, con il Partito del Vuoto Pneumatico, il Grande Disegno della via italiana al socialismo, col quale hanno intrappolato per tre generazioni l’autonomia, la forza, la creatività, la rabbia e il destino delle masse di questo paese? Quel disegno che l’onesto Be-Be-Be-Berlinguer iniziò a realizzare accucciandosi nella Nato e lavorando, col Compromesso Storico, all’inciucio di classe totale, alla fine del conflitto. Fine del conflitto operato ovviamente da chi abita al pianoterra o nel sottoscala, non certo quello di coloro che sgavazzano ai piani alti che, infatti, hanno continuato a menare come matti quelli di sotto. Da allora c’è voluto un quarto di secolo, una ricca stagione di opposti estremismi con occasionali spruzzate di brigate rosse, ma alla fusione completa tra ex-PCI ed eterni democristiani ci è arrivato, appunto, il primatista assoluto del trasformismo all’italiana, l’omino di burro. Chi è dotato di zanne più luccicanti e al tempo più taglienti da affondare nel corpo inerme e inerte del proletariato italiano? Chi si è abbeverato quanto lui ai poteri forti (è una bella gara, tra Bertinotti, D’Alema, Rutelli, ma con Veltroni non c’è partita) azzerando ogni sfumatura di laicità e promettendo una gabbia della sicurezza che neanche il nerboruto Sarkozy. Tanto da essersi meritato il logico plauso del portabelinate di Forza Italia, Bonaiuti, che è andato profetizzando una non innaturale combine tra il PD e la cosca di Berlusconi. Tanto da essere convolato a nozze con l’ex-picchiatore fascista Alemanno, giurando i due eterna fedeltà a quel coronamento del neoprotocapitalismo che si chiama sussidarietà, ossia morte del pubblico e briglia sciolte all’idrovora del profitto privato. Come i burattini Lanzillotta e Bersani, appesi ai burattinai FMI, Ocse, BCE, UE e l’uomo Goldman Sachs di Bankitalia, insegnano. Tanto da essere il cocco di una comunità ebraica che quanto a identificazione con la destra e, dunque, con i macellai di Tel Aviv, dà punti perfino ad Adriano Sofri e Magdi Allam  Ce lo presentano, soffuso di aureole buoniste, il Veltrusconi, questo eroe della più sublime doppiezza nazionale e ci intimano: badate, se non vi sta bene Veltroni, poi arriva il bau-bau vero, quello di Arcore (null’altro che un  alter ego con in bocca guano anziché melassa). E il ricatto, vedrete, funzionerà di nuovo. Non è così che le sinistre di complemento ci hanno fatto trangugiare gli assalti al Libano, all’Afghanistan, il massacro del territorio, la demolizione di ogni residua garanzia di sopravvivenza alle vampiresche liberalizzazioni-privatizzazioni, il vaiolo delle basi Usa sulla pelle della Nazione, la dittatura di una cosca di banchieri e bankitaliani? E non abbiamo subito, a sinistra, quel capolavoro dell’inversione della verità con cui la mafia mediatico-politica sion-colonialista, bulimica di territori e stragi, ha trasferito ai musulmani in corso di decimazione l’ intenzione di eliminarci e schiavizzarci tutti e poi dominare il mondo? Con il che ancora una volta il bue ha dato del cornuto all’asino.Rimane da esigere una risposta al quesito che ha sconvolto l’intera, vera sinistra: perché un gruppuscolo romano, collocato nella sinistra antimperialista e pro-palestinese, ha dato del suo (per la verità poco, lo 0,6%) alla  glorificazione elettorale del “rabbino” Veltroni?  Cosa ha fatto credere ai vernacolari della retina dei comunisti, quelli della compagnia di giro guidata dallo scaltro Vasapollo, che, allestendo alle amministrative del 2005 una lista “di movimento” a favore del più insidioso nemico di classe della nostra scena politica, potessero continuare a esibirsi come cantuccio romano dello schieramento antagonista nazionale? L’esperienza insegna che non si procede tanto bene tenendo il piede in due staffe. Prima o poi ci si fa male.

 

Occhio, sennò arriva Berlusconi!

Una riflessione s’impone: le più grandi vittorie dei subalterni storici le si sono conseguite quando s’aveva di fronte un governo di destra (chiamatelo pure “di centro”, che è la definizione chic della destra). Pensate alla quasi insurrezione nazionale – regolarmente tradita - dopo l’attentato a Togliatti, ultima chance di portare a compimento la lotta di liberazione. Pensate alla rivolta delle “magliette a righe” quando Tambroni volle fare una mussolinata; al grandioso arco eversivo  dal ’68 al ’77 che ha guadagnato a classe operaia e società tutta le migliori promozioni sul campo della storia. E invece le peggiori sconfitte – dalla scala mobile rubata, alle scuole sfasciate, alle libertà coartate, all’impoverimento generale, alle guerre inflitte - le si sono subite quando al potere stava, nelle sue varie edizioni, il centrosinistra, cioè quando la sinistra, nenniana, berlingueriana, craxista, occhettiana, dalemiana che fosse, si offriva da castigamatti al padronato interno e  internazionale. E’ sotto Berlusconi che si sono messi in piazza tre milioni contro la guerra all’Iraq – e se a capo non ci fosse stato un ciarlatano, quei tre milioni avrebbero avuto vita più lunga - e mezzo milione a Genova ha affrontato Bush e i suoi sanguinolenti ascari locali. Dal che si dovrebbe dedurre che la fine del mondo sono i compromessi storici perché sono disarmi unilaterali, perché, come diceva Gramsci, peggio di un governo di destra c’è solo un governo di sinistra che fa la politica della destra. E sotto i centrosinistri di Prodalema e Prodinotti che si sono promossi al valore un capo della polizia, responsabile istituzionale e sul terreno della “macelleria cilena” di Genova (il termine è di un suo sottoposto), e tutti i suoi centurioni sul campo. E che si è fatto nuovo capo della polizia uno che, nel raccapriccio della Procura di Palermo, ha esaltato il noto picciotto,Totò Cuffaro, per grazia di Casini re di Sicilia, come “massimo collaboratore nella lotta alla mafia”. Del resto, l’uomo è coerente: ha subito dichiarato che, con un Sud dove non si percepiscono eccessive minacce alla sicurezza (sic!), è della sicurezza al Nord, minacciata dagli immigrati, che bisogna fare una priorità. La Moratti, podestà di Milano, ha trovato il suo partner di tango argentino…

 

Il boia di Londra, mediatore portatore di patiboli

Quella di Tony Blair è la faccia di un tappo di bottiglia tirolese. Sotto due occhi da iguana si apre un sorriso da coccodrillo, talmente fisso da far sospettare la perenne attesa di una gazzella da sventrare. Questo parvenu tirato su a sangue operaio, ha poi allargato la sua voracità al sangue ed ai nervi di interi popoli. Vocato al vampiraggio di complemento, dato il decadimento del suo castello ex-imperiale, ha agevolato con vera libidine di servilismo lo stragismo del bamboccio teleguidato dalla criminalità organizzata statunitense. Accreditatosi presso qualche milione di utili idioti con l’avvertimento che Saddam Hussein avrebbe potuto incenerirci tutti in 45 minuti, ha aiutato a stringere il nodo scorsoio atlantico-sionista intorno al collo di mezza umanità, compresa la propria classe lavoratrice. Ha anche contribuito alla costruzione di quella forca caudina chiamata “scontro di civiltà”, sotto la quale si vorrebbero si vorrebbero far passare quei quattro quinti dell’umanità che hanno l‘impertinenza di non essere bianchi, cristiani, ricchi o, comunque, di abitare dove sono importuni: sulle risorse che fanno gli orgasmi dell’élite. E quello che questa spalla di Bush riusciva a fare in Iraq, o Afghanistan, perché mai non avrebbe dovuto praticarlo anche nella metropolitana e per le vie a di casa, così zeppe di plebaglia superflua e, a volte, anche  irriverente? Non sia mai  che il maggiordomo non sappia ripetere in sedicesimo il capolavoro che il signore ha realizzato l’11 settembre!

 

Lombrosianamente a Sharm el Sheik

Altre tre facce di irrimediabile segno lombrosiano (nel senso indicato sopra) sono quelle che ci hanno provocato la solita nausea a Sharm el Sheik, località che il tiranno egiziano suole prestare al compare israeliano, o a fiduciari dinamitardi beduini, quando occorra tagliare qualche altro membro al corpo mutilato del popolo palestinese. Lì, giorni fa, il sovrano giordano Abdallah, il faraone egizio Mubarak e il capo dei contras palestinesi, Abu Mazen, si sono incontrati, abbracciati e baciati nel nome della loro ribadita unità, trina e armoniosamente al servizio di USraele. Mubarak, lo spappolamento fisionomico da corruzione psicofisica a 360 gradi; Abdallah, una specie di ratto in cravatta, di quella specie che mogli da gossip e ufficiali pagatori d’oltreoceano elevano al rango di comparsa di corte; Abu Mazen, sotto lo sguardo del suo sodomizzatore Olmert, con un sorriso da paresi per la consapevolezza di averlo fatto mettere in quel posto anche al suo popolo, ora anche vietandone ogni resistenza agli assassini e invocando, d’accordo con i padrini, una forza di mercenari internazionali che, come in Libano, riesca a Gaza là dove i suoi sbirri hanno fallito. Sorridente banda di gangster abbracciati, in lieta navigazione su mari di sangue: erano appena usciti i documenti, scoperti da Hamas a Gaza nelle stanze della tortura dei gerarchi Fatah, che rivelavano l’intesa Rice-Olmert-Mubarak-Abu Mazen per la liquidazione del governo del legittimo primo ministro Haniyeh, da attuare con un bagno di sangue sotto la guida del fidato sicario Mohammed Dahlan. Il quale, appropriatamente, aveva anche confezionato, come suole quando il principale prepara qualche carneficina di arabi, cellulette di Al Qaida da inserire tra i “terroristi” di Hamas (lo hanno rivelato le autorità egiziane sulla base di questi documenti scoperti di Fatah). Come sappiamo, le cose andarono poi diversamente: le forze democraticamente elette dai palestinesi prevennero il golpe e nel giro di tre giorni cacciarono i contras dal territorio e Dahlan dal suo palazzo di marmi di Carrara, tempestato di opere d’arte e casseforti, collocato nella miseria di Gaza come un rolex sul moncherino di un lebbroso.

                           

Narcotrafficanti, ma nostri narcotrafficanti

A quei tre, come sequenza horror, andrebbe aggiunta un’altra, di pochi giorni appresso, a Ginevra, dove si è riunita quella bella accolita, per la quale tanto spasima il sinistrocratico Mussi , la quale, nonostante che ospiti un trucidatori di elevatissima professionalità come Simon Peres, insiste a chiamarsi Internazionale Socialista. Come chiamare aquila un papataccio. C’erano, graditi ospiti e soci onorati, i due narcotrafficanti a cui, fin dagli anni ’70, Israele, l’Iran e gli Usa hanno dato in appalto lo squartamento dell’Iraq: Talabani,  presidente della macelleria nazionale e Barzani,  presidente del Curdistan iracheno elevato a colonia di Israele. Personaggi che a furia di vendersi a qualunque sterminatore di passaggio, da Khomeni ai Bush, dalla Cia al Mossad, dalla Exxon alla Total, dai coltivatori di papaveri afgani sotto egida Nato al miglior offerente mafioso occidentale, all’Internazionale dalemian-peresiana non avevano da offrire che le proprie affinità elettive.

 

Alì, perentoriamente “il chimico”

 Si chiamava Ali Hassan al Majid, era un generale di Saddam, ma lo chiamavano “Alì il chimico”. Militare ma colto, lo intervistai nel 1989, quando i mercenari curdi di Khomeini e di Reagan, del tutto simili ai briganti dell’UCK kosovaro, avevano, per il momento, terminato di mettere a rischio l’unità del paese e potevano dedicarsi ai massacri dei loro fratelli del PKK in fuga dai turchi. Mi spiegò come l’esercito stava intervenendo in difesa dei curdi perbene, appunto quelli  nel mirino degli ascari Talabani e Barzani  Oggi alzi la mano chi non  ha chiamato così, Alì il chimico, quell’uomo, o non si è sciacquato le orecchie dopo averlo udito chiamare così. Un meschinello del tutto inconsapevole del 90% di quello che dice, e che quindi fa il conduttore del TG3, ha ripetuto il nomignolo infamante tre volte in ventidue secondi e, nel successivo servizio, il velinaro all’uopo adibito l’ha detta sette volte. Non si sono astenuti neppure quelli del “manifesto”, figurarsi poi “Liberazione”. Come se alla sua morte  Andreotti venisse onorato da un coccodrillo che ripetesse a giaculatoria  “Giulio il mafioso”, senza mai citarne nome e cognome.  Sarebbe come minimo scorretto. Se sarebbe disinformazione, non so. Nel caso di Ali al Majid sicuramente lo fu. Ma andare oltre lo stereotipo confezionato nelle centrali Usa della demonizzazione del nemico, funzionale alle guerre quanto l’invenzione di Osama e del terrorismo islamico, questo no, questo non compete al comunicatore nostrano. Né a nessun altro, che almeno io abbia ascoltato o letto. E invece Ali non era “il chimico”. Perché “chimici” erano gli iraniani. Basterebbe che questi professionisti, coccolati dal sindacato esclusivamente per le loro prebende, avessero l’elementare sensibilità deontologica di andare a leggere la documentazione ufficiale, non mediatizzata. Che so, i rapporti dei servizi segreti di tutto il mondo, dei testimoni oculari, dei giornalisti sul posto, dell’analista capo della Cia per la guerra Iraq-Iran, Stephen Pellettiere (New York Times, 31/1/2003). Nella campagna del 1988, detta Anfal, delle truppe regolari irachene contro i secessionisti curdi di Talabani e Barzani, quinta colonna Usa-Iran che per conto dell’Occidente avrebbe dovuto completare l’opera che a Khomeini non era riuscita, ci sarebbero stati dai 200.000 ai 400.000 morti (secondo l’iniziatore della bufala, il noto Human Rights Watch, a direzione sionista). Non se ne sono trovati più di qualche centinaio, miliziani curdi caduti nello scontro con le truppe governative che, a loro volta, ebbero un numero analogo di caduti. Ma l’episodio per il quale Al Majid è stato condannato a morte dal solito tribunale burletta supervisionato dagli Usa e poi giustiziato (non impiccato, ma dagli sgherri iraniani di Moqtada al Sadr preso a calci e decapitato lentamente), si riferiva ai fatti di Halabja. Il villaggio curdo nel marzo ’88, durante una battaglia tra truppe irachene e iraniane, fu investito da una nuvola di gas nervino, al cianuro, che fece alcune decine di vittime, poi cresciute a seimila, ottomila, diecimila (si chiama “sindrome di Sebrenica”, il villaggio bosniaco dove, a carico dei difensori della Jugoslavia unita, si sono inventate sei-otto-diecimila vittime dei serbi). Le fonti sopra citate, ampiamente consultabili in internet (vedere l’inestimabile uruknet.info), confermano tutte la versione dell’epoca, quando non si era arrivati ancora a criminalizzare l’Iraq a scopo di aggressione: quel gas fu sparato dagli iraniani, unici a disporne (gli iracheni avevano il più primitivo gas iprite) e fu indirizzato contro gli avamposti del nemico. Fu un vento infausto a sviarlo verso il villaggio curdo. Chi restituirà ad Ali Al Majid, neanche la vita ma il suo nome vero e la verità?

 

La “Dottoressa Antrace”

Non è dissimile l’altro caso della propaganda, complicemente o vilmente spappagallata da politici e mediatici di sinistra: quello della “Dottoressa Veleno”. Si chiama Ouda Hammash, è una biologa, era uno dei sei membri del Consiglio della Rivoluzione, massimo organo dello Stato iracheno. Fu catturata e sbattuta nell’inferno di Camp Bucca. E’ malata di cancro. Non se ne conosce la sorte. La intervistai pochi giorni prima  dell’invasione del 2003. La conoscevo fin dagli anni ’90, quando, avendo studiato gli effetti spaventosi dell’uranio 238, lanciato a tonnellate sugli iracheni presenti e futuri, teneva conferenze in cui illustrava gli agghiaccianti risultati dei suoi studi. Fu promotrice dell’incontro tra vittime irachene e militari statunitensi colpiti dalla cosiddetta “sindrome del Golfo” (400.000 nella spedizione di 600.000, 50.000 deceduti), rivelò l’identità degli effetti sui vivi e sui neonati, denunciò al mondo il crimine dell’uso di un’arma proibita e che uccide nei millenni. Questa, la sua colpa. Questo le meritò il titolo di “Dottoressa Veleno”, o “Dottoressa Antrace”, basato sulla menzogna che Ouda avrebbe sparso quell’antrace che, invece, si dimostrò uscito dai laboratori militari Usa e da lì spedito agli oppositori di Bush, subito dopo l’altro crimine di Stato, le Torri Gemelle.

 

Autobomba Al Qaida con conducenti ignari

E veniamo alle bombe, autobombe, agli aerei da abbattere, ai kamikaze. Tutta roba senza spiragli di dubbio accreditata, nelle versioni Scotland Yard o Pentagono, dal “manifesto”, a maggiore avallo dello “scontro di civiltà”. Al Qaida invincibile più di Alessandro Magno, onnipresente più del padreterno, universalmente terrorizzante più della peste (che era vera) o dell’Aids (che è fasulla), le cui operazioni, tuttavia, paradossalmente sono condotte da degli sprovveduti che non li prenderebbe per garzoni neanche il più sfigato mortarettaro napoletano. E sì che Al Qaida di mezzi ne dovrebbe avere per addestrare alla perfezione brigate di fanaticoni, visto che ha saputo spandersi, inarrestabile perfino nel concorso di ogni potenza repressiva, per tutto il globo terracqueo e far sfracelli a un ritmo tale che ormai, se ti mettono sotto il gatto, sei portato a intravedere alla guida Osama bin Laden. Da Londra a Glasgow, da Algeri a Casablanca, dallo Yemen a in capo al mondo, tra pasticcioni della porta accanto e professionisti delle caverne afgane  saggiamente assortiti, l’inizio estate 2007 ha visto un arroventarsi tale della tensione terroristica da rendere il riscaldamento globale un fresco ponentino romano. Hanno ridotto l’Iraq  peggio della Cartagine di Catone, da sei anni stanno polverizzando l’Afghanistan. Al Libano hanno messo la museruola e alla Palestina sparano da cinquant’anni al cuore. Le società occidentali sono ridotte come microbi sotto il vetrino di un controllo sociale che Hitler e Mussolini si sarebbero sognati. Scudi spaziali, satelliti, servizi segreti che reclutano metà della popolazione terrestre, ci mettono in condizione di afferrare per la coda le lucertole tra i muretti a secco di Alberobello…  Eppure Al Qaida, eppure il “terrorismo islamico”, eppure le autobomba e i kamikaze da sei anni imperversano peggio del virus dell’aviaria l’altr’anno. Fasullo l’uno, fasulli gli altri?

 

Autobombe di reclute Cia e MI5, tanto inconsapevoli quanto squinternate (l’idea, in effetti inquietante, è di convincerci che qualsiasi vicino può far saltare in aria il quartiere), a Londra e a Glasgow, città natale del nuovo premier Gordon Brown. Avvertimento, o pagamento di cambiale all’internazionale terrorista che lo ha messo in quella poltrona?  Autobombe in Yemen e, prima, in Algeria, Marocco e Sharm el Sheik, per distogliere i viaggiatori della civiltà superiore dall’inoltrarsi tra le tenebre barbariche e letali del medioevo islamico. Assalti agli spagnoli dell’Unifil e agli spagnoli turisti (segnali a uno Zapatero troppo fuorilinea?). Stronzate securitarie fino al grottesco del bando dello shampoo dalle borse dei viaggiatori, presuntamente per evitarci di saltare per aria in volo, ma in effetti per confermarci in una paura cosmica, come gli eserciti di robocop a ogni angolo (e nelle scuole, propone la previdente Livia Turco: acchiapparli da piccoli!), i pedofili che incombono sui nostri bimbi (mentre nessuno fa caso agli stupratori pubblicitari di bambini-tv) e le  telecamere che registrano ogni nostro smoccolamento e lo archiviano a futura memoria inquisitoria. Ed ecco che su Al Qaida e terrorismo islamico, diventati in tempi recenti oggetto di sghignazzi universali per abuso d’uso e smascheramenti ricorrenti, possono tornare ad esercitarsi i difensori ad alto reddito mercenario di una superiore civiltà a rischio di finire rinchiusa nel burka, se non dai “mori” divorata viva. E se non c’è più Oriana Fallaci, ci sono Magdi Allam e Renzo Guolo, Giuliano Ferrara e Mario Pirani, ci sono, nel “manifesto”, le Sgrene e le Forti che in Afghanistan intervistano solo le brave persone che si augurano la permanenza degli occupanti, “a fini di sicurezza”. C’è un’intera, affollatissima madrassa dell’integralismo giudaico-cristiano, frequentata anche da una sinistra che sguazza compiaciuta nella fanghiglia del suo inveterato “né-né” , ribadito dall’equivoco collaborazionista della “spirale guerra-terrorismo”.  Insomma, la situazione, al volger dell’estate 2007, era segnata da troppi buchi nella cortina a copertura della criminalità militare occidentale da rischiare di sfuggire di mano. Anche in Italia ci voleva un colpo d’ala, dopo la nemesi Hanefi, il dirigente afgano di Emergency catturato e carcerato dagli sbirri del narcopresidente nostro alleato, per aver fatto liberare un giornalista italiano dal sequestro taliban. Allo sputtanamento di quest’altro regime di Vichy, narcotrafficante ma filoccidentale, addizionato alle quotidiane stragi di donne e bambini  da parte di “liberatori” agevolati dai “nostri ragazzi” nelle retrovie, il geniale D’Alema, praticissimo di queste cose fin da Belgrado, rispose con la “Conferenze di Roma su diritto e giustizia in Afghanistan”. Bel colpo, i criminali di guerra c’erano tutti: il caporione Nato De Hoop Scheffer, il terminator Usa, già ambasciatore in Iraq, Khalilzad, il fantaccino Onu Ban Ki-Moon, lo stesso pusher, già omino di Cheney in Halliburton, Karzai. Si è anche udito qualche farfuglio di Prodi e una serie di squittii del falsetto dalemiano. Pensate, “diritto e giustizia” come tema di coloro che stanno sfracellando il paese!  Davvero un virtuoso, quello che invece sembra solo un barbiere di Gallipoli. Nessuno, quanto il baffino, si diverte a prendere per il culo la gente. Vantandosi, perfino, di aver speso 50mila euro per infiliggere agli afgani un sistema giudiziario tipo Mastella o Gonzales ( ministro della tortura Usa), consistente essenzialmente nella costruzione di Guantanamo locali, con personale addestrato dai guardiani di quel centro Usa dei diritti umani.

 

Al Qaida tra i palestinesi. E dove sennò?

Ero stato a Nahr el Bared, il campo dei 40.000 profughi del ’48, all’inizio della guerra civile. Allora erano ancora ventimila. Il colera da denutrizione e acqua inquinata faceva in quel campo quel che poi avrebbero fatto le soldataglie di Beirut. Litigai con il mio compagno Tano D’Amico, famoso fotografo, quando alcune donne palestinesi ci presentarono, piene d’orgoglio, i loro cinque, sette, dieci figli. Era il 1975, pieno fervore femminista contro le filiazioni multiple e Tano non gradì il mio plauso a queste madri che, consapevolmente, generavano combattenti contro chi voleva estinguerne la comunità. E ancora lo fanno, ultima risorsa contro infiltrati, rinnegati e sterminatori. Se da noi numeri così significavano arcaico sfiancamento della donna nel nome della funzione riproduttrice patriarcalmente assegnatale, quaggiù era la sua autonoma e cosciente partecipazione alla lotta per la sopravvivenza, lotta per la specie e per la giustizia. Questo,Tano non lo condivideva. Sono passati oltre trent’anni da allora. Quelle madri oggi sono nonne e, quando non uccise dalle bombe, da Nahr el Bared sono state cacciate a ferro e fuoco. Che i 400.000 palestinesi del Libano aprano gli occhi: basta infiltrare un qualche Al Qaidino ben lobotomizzato o pagato. E pagheranno una volta per tutte quell’insistenza a vivere. Donne sterminate o disperse da un mese di cannonate contro qualche decina di utili idioti della provocazione antipalestinese, prodromo a quella conclusiva contro Hezbollah e, quindi, al ripulisti coloniale del Libano, umanitariamente sostenuto dall’Unifil. Tra stermini di palestinesi, attentati ai politici “antisiriani”, tribunali-farsa sull’assassinio di Hariri, sanguinosi attacchi ai “pacificatori” Unifil, continui inneschi di guerra civile che solo la grande intelligenza di Hezbollah ha fin qui neutralizzato, la più elementare, ma trascurata, logica del due più due dice che si sta preparando quel piattino che dovrebbe fare del Libano il solito non-Stato e la base d’attacco alla Siria. Ma qualcosa è andata storta. Qualcosa va sempre storta quando impunità e tracotanza provocano eccessi di disinvoltura e scoprono fianchi alla verità. Basta pensare alla fin patetiche fandonie sulle Torri Gemelle, incenerite da piloti funamboli con mezzo serbatoio di kerosene e sul Boeing 157 contro il Pentagono, largo 39 metri e che ha fatto un buco di cinque e mezzo. Oggi il “Movimento per la verità sull11/9”, di scienziati, tecnici, piloti, testimoni, analisti, è diventato uno Tsunami.

 

Appassionarsi ai tasselli, ignorare il mosaico, vedere l’albero, mai il bosco

Un’amplissima e documentata controinformazione, del tutto ignorata dai pigri gentiluomini dei media radical-chic, ha messo insieme i tasselli di questa ciclopica offensiva di Al Qaida: Afghanistan, Libano, Iraq, Palestina, Europa, Filippine, America Latina…E ha fatto quello che i bravi giornalisti della stampa di sinistra evitano come il fuoco: ha messo i tasselli nel contesto. Il gruppetto di quasi tutti stranieri, finanziati e armati dal clan Hariri, famiglio di Israele e dell’Arabia Saudita, che viene spedito nei campi palestinesi in Libano per allestire provocazioni che permettano ai militari di sfoltirli un bel po’, quei campi di straccioni, e inaugurare il nuovo ruolo di un esercito, del tutto inerte davanti alle aggressioni sioniste, ma ora armato dagli Usa perché costuisca la colonna dello Stato proconsolare contro “le milizie”. I quattro katiuscia sparati contro Israele e l’attentato agli spagnoli dell’Unifil, perché si possa parlare di “complotto Al Qaida e anche siriano” contro la sicurezza del paese e coinvolgere la Folgore (che ha intenerito Bertisconi) e domani Tsahal, nella “rimessa in ordine” del Libano. I già citati documenti scoperti nelle segrete di Fatah a Gaza e che rivelano l’invenzione di cellule Al Qaida da parte del fantoccio israelo-statunitense Dahlan (con dietro lo sponsor Abu Mazen). Mentre nulla ci mette un arnese corrotto e al guinzaglio degli Usa e di Riad, come il presidente yemenita Ali Saleh, a spedire un’autobomba nella reggia della regina di Saba per ribadire l’immenso odio dei musulmani contro l’evoluto occidente cristiano. Anche lui narcotrafficante, come quasi tutti i fantocci insediati dagli Usa, visto che campa della vendita a mezza Africa dello stupefacente anfetaminico Khat.

 

Colonialismo e stato di polizia in difficoltà? Vai con il terrorismo!

Già, le autobombe, i kamikaze! Altro tassello straripante sono gli indizi, Indizi tanto urlanti quanto muti ai nostri informatori. Quando non hai per le mani qualche poveraccio lobotomizzato - come quelli educati dai manuali Cia (stampati in Texas e distribuiti in Asia dalla  statunitense “Fondazione Nazionale per la Democrazia”) nelle madrassa afgane e pakistane - che si avvolga nel tritolo e si faccia esplodere per un Bush chiamato Allah, ci sono le autobombe. Guidate, ma anche teleguidate. Più facile che telesbattere due aerei contro grattacieli. Ne ho parlato io, che conto pochissimo, ma ne hanno parlato addirittura grandi media anglosassoni, francofoni, asiatici. Con tutto questo, l’automuseruola delle vestali di sinistra dell’11 settembre non si è allentata. Fin dal 2004, quando gli Usa, utilizzando i neopoliziotti del governo fantoccio e, soprattutto, le milizie scite, di obbedienza iraniana, di Moqtada e Al Hakim, venivano riferite testimonianze che gettavano abbagliante luce sulla tecnica stragista delle autobombe anti-civili. Decine di autisti iracheni, spesso tassisti, si erano viste sequestrare le vetture per qualche controllo. Poi avevano potuto riprendersele da uffici militari o di polizia, ma con l’intimazione di recarsi a fare qualche commissione in un dato luogo, sempre affollatissimo, mercato, moschea. Arrivati sul posto dovevano avvertire il committente per telefono e… saltavano per aria con tutto il circondario. La vettura era stata segretamente rimpinzata di esplosivo. Molti, ovviamente, non hanno potuto, dai loro brandelli sparsi, denunciare nulla. Ad altri è andata meglio: si sono fermati prima, hanno scoperto il carico, il telefonino non gli ha funzionato, o, prima di telefonare, si erano allontanati dall’auto. Perlopiù sono scappati in Siria o Giordania, tra quei quattro milioni di polvere umana, cacciata da casa e dal mondo, di cui il mondo non vuole sentire parlare.

 

I SAS all’opera, da Belfast a Basra

Qualche volta i mandanti si fanno direttamente sicari. E la storia che segue l’hanno riferita tutti, per poi prontamente dimenticarla al fine di non doverne trarre le ovvie conclusioni quando, per esempio, si trovano autobombe a Londra, o si vanno a infilare nell’aeroporto di Glasgow. Gennaio del 2005: a Basra un posto di blocco di  polizia ferma un camioncino con due arabi in jallabiah e kefìah. I due sparano e buttano giù alcuni poliziotti, fuggono, ma vengono fermati. Sorpresa, ma per gli iracheni mica tanto: sono due militari britannici delle famigerate – in Yemen, India e Irlanda -  squadre della morte SAS, travestiti da arabi. Erano diretti a una gran mercato pieno di gente. Il veicolo trabocca di esplosivo e di innesco a distanza. I due scherani vengono chiusi in prigione. Tempo due ore, arriva una colonna di carri britannici, sfonda il muro della prigione, ammazza alcune guardie e si porta via i commilitoni. Spariti per sempre. E’ da operazioni così, quando riescono e diventano di Al Qaida, che si fa passare “l’odio immenso dei musulmani per l’Occidente”. Avrebbe dovuto bastare per far crescare sui fogli del “manifesto” un albero del dubbio, vasto quanto l’intero giornale, ogni giorno della sua vita. Chissà se, coltivando quell’albero, il “quotidiano comunista” non avrebbe più da piangere miseria. Forse quella miseria deriva anche da quegli omaggi incondizionati e inconsulti inevitabilmente offerti dai suoi cronisti alle più surreali e sospette versioni di Washington, dall’11/9 in poi, e di Scotland Yard (“La cellula dei medici iracheni per far saltare il Regno Unito”, tanto per citare l’ultima ). Non si rende conto, il “manifesto”, che gran parte dei suoi lettori è chilometri più avanti?

 

Kamikaze funamboli: il caso Amman

Ma poi ci sono i kamikaze con la cintura esplosiva. E chi ne dubita? Peccato che, a volte non sono nemmeno pupazzi psicoteleguidati. Non ci sono proprio. 11 novembre 2005, Amman. Entrano quattro kamikaze, saltano per aria tre alberghi. In uno un clan palestinese festeggiava il matrimonio. Tutti morti, 56. Tosto rivendica Al Zarkawi, capo di Al Qaida in Iraq, ma defunto e ufficialmente sepolto da due anni. Solo che: 1) non c’erano kamikaze, perché avrebbero dovuto camminare sui soffitti come le mosche: le bombe erano esplose dal soffitto (lo documentano foto e filmati), previa loro collocazione passando davanti a tutti i controlli del hotel; 2) la sera prima i turisti israeliani in quegli alberghi erano stati prelevati dai servizi giordani su imbeccata di quelli israeliani. Lo confermano con orgoglio il quotidiano Haaretz e un vecchio capo-intelligence israeliano; 3) Nella saletta accanto al matrimonio erano riuniti alcuni personaggi di straordinaria preoccupazione per Israele: tre alti funzionari dell’intelligenze e del sistema finanziario palestinese, critici di Abu Mazen, e tre delegati del Ministero della Difesa cinese. Disintegrati. Traete voi le facili conclusioni. Non sono cose da indurre anche la nostra parte almeno a quel sospetto che è lo strumento del quale loro fanno arma antisociale e con cui filtrano e decimano la popolazione avversa. Sospetto come matrice di una paura generale che ci taglia le palle, stordisce le ovaie e esaspera fino alla depressione solipsista l’individualismo dei votati a perdere?

 

Il burattinaio e i suoi duelli tra Pulcinella e il diavolo

Tessere per un mosaico che traccia l’immagine dell’apocalisse. Potete scommetterci che non appena da Cuba, dal Venezuela, dal Sudamerica in marcia antimperialista e anche rivoluzionaria, arriva qualche notizia che susciti approvazione, invidia, magari imitazione (le socializzazioni di Chavez, le vittorie di Cuba, l’avanzata di Bolivia o Ecuador), vi verrà rovesciato uno tsunami di rigurgiti di malelingue prezzolate sulle nefandezze di Castro, la prepotenze di Chavez, l’incoscienza di Morales. A volte il capo trombettiere è il giornaletto del presidente della Camera. E ‘un ping-pong. Tu batti un colpo? E io ne batto dieci. Tu mi rifili un sinistro (!)? e io ti abbatto sotto una gragnola di diretti sotto la cintura. Così per le guerre stellari tra Occidente e mondo islamico. Il sincronismo è perfetto. MI rifili Abu Ghraib? E io ti sparo qualche video di tagliateste di Al Qaida.Tanto è tutto armamentario mio.

 

In Libano gli israeliani fanno tabula rasa violando ogni articolo della convenzione di Ginevra, oltre alla nostra soglia della nausea? Prontissimo, il 10 agosto 2006, Blair assorda il mondo con la storia dei dieci aerei passeggeri in partenza da Londra per gli Usa e dei kamikaze, dotati di liquidi esplosivi che, per renderli attivi avrebbero dovuto bruciare sei ore e impestare di fumo il gabinetto della cabina. Dopo una settimana, passato lo scandalo Libano, non se parla più. Mai più. Però si continuano a bandire gli shampoo dal bagaglio. Sennò che paura sarebbe? Quanto all’offensiva terroristica della guerra globale nel giugno-luglio del 2007, embè di motivi per correre alla riconquista dell’opinione pubblica a forza di botti di Al Qaida tra Gran Bretagna, Libano e Yemen se ne erano assommati diversi. In Afghanistan, oltre a prenderle da tutto un popolo insorto, la nostra coalizione non faceva passare giorno senza estinguere la vita di un villaggio: F15, F16, bombardieri pesanti guidati dai nostri Predator, migliaia di bombe a grappolo, bombe spaccabunker da mezza tonnellata, missili da crociera. 1.200 missioni la settimana. Tutte impegnate a distinguere nettamente tra taliban e donne e bambini. E se di taliban non ce n’è, si prende il tizio disintegrato e gli si mette accanto un AK-47. “I taliban usano i civili come scudi umani!” Mica lavorano come i topgun, a diecimila chilometri dai loro compatrioti. Già, stanno tra i civili, sono i combattenti di quel posto, di quel villaggio, di quella città. La guerra di popolo lì si svolge, non dispone di campi di battaglia nel deserto. L’orrore per le efferatezze Usa si estende, oltrechè agli scontati “estremisti”, a un bel po’ di gente. Esclusi gli inossidabili Magdi Allam, Giuliano Ferrara e Walter Veltroni.

 

In Palestina si scopre che un popolo già massacrato decide di votare per chi lo difende con la Resistenza e allora lo si decima, imprigiona, affama. Tanto di Gaza interessava solo l’acqua. E quella la si è presa, lasciando ai palestinesi le falde ormai salmistrate dal mare, in pozzi che non devono scendere sotto i 130 metri (quelli israeliani fino a 800!).  Poi la striscia si chiude e vaffanculo. Del resto lo diceva il vecchio capoccia Weizman e lo ripetevano tutti da Ben Gurion in giù, che era per l’acqua che Israele doveva predare fino al Litani in Libano, allo Yarmuk in Siria, alle fonti del Golan, alla riva est del Giordano. E magari, poi, fino al Nilo e all’Eufrate. Ma ecco che un po’ di gente, neanche tanto sprovveduta, come l’ex-presidente Jimmy Carter e l’ondivaga Amnesty, iniziano ad arricciare il naso. Il golpe contro Hamas da parte di forchettoni venduti non fa pensare proprio a una rettifica democratica. C’è sconcerto e le voci della verità riprendono volume.

 

Più figuracce fanno, più Al Qaida fanno

In Iraq la tragedia e i crimini contro l ‘umanità che la determinavano assumevano proporzioni tali da far riflettere perfino un fautore dell’armagheddon  come Brzezinski. Contemporaneamente, campagna Usa di sicurezza dopo campagna Usa di sicurezza, surge dopo surge  fallita, altri inutili 30mila marines, i cinquanta sunniti al giorno trovati trapanati, le carneficine e gli attentati ai luoghi sacri, tipo Samarra, tutta farina del sacco iraniano-statunitense protagonizzato da Moqtada al Sadr (che perciò deve far finta di essere “antiamericano”), i quattro milioni di profughi e sfollati, dannati della Terra come neanche Franz Fanon avrebbe potuto immaginare, Bakuba, Samarra, Falluja, Adhita, Hilla assediate dagli USA e uccise per fame, sete, peste, peggio di Gengis Khan, i furti con scasso della più preziosa e grande ricchezza archeologica del mondo, tutto questo stava facendo vacillare non poco la fede assoluta nel bene – noi - e nel male - quelli. Occorreva rispondere, troncare, sopire i perplessi, accendere ovunque la fiaccola dello scontro di civiltà. Occorreva un bel po’ di Al Qaida, da Glasgow a Khiam in Libano, da Londra a Sanaa. Occorreva ripristinare il genoma del capitalismo feudatario e colonialista attraverso il rilancio della catena consequenziale: strategia del terrorismo islamico, strategia della paura, strategia del controllo e della repressione sociale e della guerra imperialista.      

Il terrorismo islamico compensa la perdita del nemico sovietico, è universale, perenne, invincibile. Se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Così l’hanno inventato. La paura – in particolare quella preziosissima dei “mori” - è da duemila anni lo strumento più riuscito per il dominio dei pochi sui molti, dei delinquenti sui giusti, per cui diffondere a piene mani bombe, cellule dormienti o sveglie, arresti di imam, pandemie assassine, dati pompati sulla criminalità (purchè non mafiosa), una spruzzatina di pornopedofili ogni tanto, e poi telesorveglianza, tecnologie della sicurezza, ogni tre mesi l’invocazione “più poliziotti, più carabinieri”  (abbiamo più guardie per persona di tutta Europa), e tanto Magdi Allam. Quanto a Sofri, ora che sta a casa, oltrechè su “Foglio”, “Panorama”, “Repubblica”, lo vogliamo anche sulla carta igienica… Così è se vi pare. Basta che grattiate appena un po’ dietro a ogni autobomba, dietro a ogni sito fondamentalista e ci troverete un texano. O grattiamo, o siamo fregati..

   

 

 

 

 

info@siporcuba.it

 HyperCounter