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La memoria non si archivia

 

• Morti di Reggio Emilia, uscite dalla fossa, fuori a cantar con noi Bandiera rossa! 

 

      

Era il pomeriggio del 7 luglio 1960, quando 350 uomini della Celere armati di pistola e mitra caricarono 300 operai delle officine di Reggio Emilia in sciopero, armati di maniche di camicia e nient'altro. E' un massacro.

Afro Tondelli muore schiacciato da una jeep, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Lauro Ferioli e Marino Serri cadono a terra sotto colpi d'arma da fuoco.

È di loro che parla la più struggente canzone del repertorio operaio italiano, "Morti di Reggio Emilia", che tanti compagni ancora oggi si emozionano a cantare e a tramandare di generazione in generazione.

Il presidente del consiglio era Ferdinando Tambroni, al governo grazie all'appoggio del Movimento Sociale Italiano e dichiarato oppositore della

Costituzione fondata sulla Resistenza dell'Italia antifascista. Così riferì al Parlamento dopo i fatti di Reggio: "Circondati dai dimostranti che tiravano sassi, gli agenti furono costretti a sparare per legittima difesa".

Il giugno-luglio 1960 è segnato da una grave crisi politica che scuote l'Italia: Fernando Tambroni, democristiano, forma un governo monocolore sostenuto dal Msi. È l'"anticamera" di un colpo di stato di destra nel nostro paese. 

Il 28 giugno del 1960 si tiene a Genova una imponente manifestazione popolare  antifascista; il 30 un nuovo corteo cittadino viene affrontato dalla polizia, e negli incidenti rimangono feriti 83 manifestanti. 

La proposta antifascista si diffonde in altre città e il governo Tambroni sceglie la linea dura per fronteggiare e reprimere il dilagare delle manifestazioni di piazza. 

Il 6 luglio 1960 a Roma, a Porta San Paolo, la polizia reprime un corteo antifascista, ferendo alcuni deputati socialisti e comunisti; ma i fatti più gravi accadono a Reggio Emilia: nel corso di una delle manifestazioni seguite ai fatti di Roma la polizia uccide cinque manifestanti comunisti: Ovidio Franchi, Lauro Farioli, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli. 

La CGIL proclama, da sola, uno sciopero generale. La tensione socio-politica nata a Genova e dilagata nel paese porterà alle dimissioni di Tambroni il 19 luglio 1960.

Il 7 luglio riemergono in molte città i gruppi di partigiani, i comitati antifascisti vengono riorganizzati, e altrettanto fanno quelli della destra in un clima di immanente scontro fratricida fra italiani, ritornati ai tempi dell'8 settembre dove reciprocamente gli uni danno la caccia agli altri. Sono passati quindici anni e nonostante il "miracolo" si è quasi al punto di partenza sul piano politico e sociale.

Avvengono a Reggio Emilia i più violenti scontri, centinaia sono i feriti e cinque i morti, ma altri feriti si segnalano in altre città, a Parma, Modena, Napoli. Alla Camera, dove giungono le ferali notizie, si vuole sdrammatizzare e nello stesso tempo insistere con affrettate valutazioni, molto inquietanti del Ministro degli Interni SPATARO, che afferma:  "È in atto una destabilizzazione ordita dalle sinistre con appoggi internazionali" e giustifica l'intervento della sua polizia. TAMBRONI, il presidente del consiglio, afferma le stesse cose.

Più ragionevole il presidente del Senato MERZAGORA, che propone di tenere le forze di polizia in caserma e invita le organizzazioni sindacali a non fare scioperi, a non lasciare libera una moltitudine di gente che può provocare incidenti.

Ma non viene ascoltato e le manifestazioni, proclamando la CGIL uno sciopero generale in tutta Italia, fanno aumentare la partecipazione alle manifestazione e  innescano altri incidenti a Palermo e a Catania dove negli scontri si contano altri centinaia di feriti e anche qui quattro morti.

Reggio Emilia sta preparandosi a onorare i suoi cinque morti con una manifestazione di cordoglio imponente; il clima è dunque già teso, ma con le notizie che arrivano dalla Sicilia la tensione sale ancora e sembra ormai precipitare in una situazione incontrollabile.

Il 9 luglio a Reggio Emilia, l'intera città, 100.000 persone sfilano in una giornata plumbea e in silenzio davanti alle bare dei cinque caduti. Altrettanto a Palermo e Catania. Sono sconvolti gli ex partigiani e sconvolti sono anche quelli che appartengono alla destra. Ci si interroga. Ma la riflessione non tocca gli esponenti politici responsabili.

Alla Camera, il 14 luglio il Presidente del Consiglio TAMBRONI afferma e mette in relazione il viaggio a Mosca di Togliatti e i fatti accaduti.

"Questi incidenti sono frutto di un piano prestabilito dentro i palazzi del Cremlino".

Due giorni prima, il 12, Pietro Nenni ha denunciato il clima di guerra civile e ha chiesto di mettere il presidente del Consiglio in stato d'accusa.

In questa atmosfera d'inquietudine la Confindustria e i sindacati raggiungono un accordo sulla parità salariale tra uomo e donna.

A surriscaldare il clima, ma anche a frenare l'escalation, ci pensano 61 intellettuali della DC che preparano un documento che intima ai dirigenti democristiani di non fare alleanza con i neofascisti provocatori e responsabili, secondo loro, dei gravissimi incidenti destabilizzanti.

Il governo TAMBRONI è costretto a dimettersi. Le sue invocazioni dopo gli attacchi ricevuti dal suo stesso partito, dove ci sono correnti che hanno forse capito meglio di lui che ci si sta avviando su una strada molto pericolosa, non danno più spazio alle sue fantomatiche e inquietanti esternazioni.

Fanfani ricostruisce il suo governo che chiama "di restaurazione democratica". E' un monocolore DC che al Senato ottiene 128 sì, 58 no, 39 astensioni. Mentre alla Camera ottiene 310 sì, 156 no e 96 astensioni. Questa volta ci sono i sì della DC e anche quelli del PSDI e del PLI, mentre nel no a fianco dei comunisti troviamo il precedente alleato, cioè il MSI e nelle astensioni i monarchici e i socialisti del PSI in uno stravolgimento perfino paradossale...

( Gioia Minuti – Frammenti da Avvenimenti Italiani)

 

 

 

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