SFUMATURE DELLA GUERRA DELL'IMPERO

  

 

 

Cosa sta succedendo all’Avana 

LA SINDROME DELL’ASSEDIO

di Gianni Minà

Un editoriale Wayne Smith, ex responsabile dell’Ufficio di interessi degli Stati Uniti all’Avana durante la presidenza di Jimmy Carter, che ha scritto recentemente sul Boston Sentinel per denunciare il maldestro tentativo del governo di Washington di indicare Cuba come un paese terrorista, mi spinge a scrivere per raccontare una storia che aiuterà molti a capire cosa sta effettivamente succedendo in questo momento nell’isola e, forse, spingerà i più critici ad avere una maggiore onestà intellettuale nel giudicare. Il saggio uscirà fra qualche giorno nel n. 82 della rivista Latinoamerica. Wayne Smith, ora docente universitario, non era solo il secondo segretario dell’ambasciata Usa quando John F. Kennedy decretò, nel ’62, l’embargo a Cuba -mai più annullato- ma, alla fine degli anni ’70 era il diplomatico che condusse, per conto del presidente Jimmy Carter, l’unico tentativo di pacificazione tra Washington e l’Avana in 40 anni. <<Eravamo vicini allo storico accordo –mi ha rivelato Wayne in una recente intervista-  ma poi Reagan, con l’aiuto di George Bush sr., battè alle elezioni Carter e tutto sfumò. Peccato, avremmo evitato 25 anni di ulteriori tensioni>>.  Wayne Smith non ha mezze misure nel denunciare l’ambigua politica messa in atto dal nuovo presidente degli Stati Uniti nel tentativo di creare disagio politico dentro Cuba o, addirittura, giustificare in futuro uno sciagurato intervento: <<Uno dei pilastri su cui si fonda la politica cubana dell’amministrazione Bush –spiega l’ex diplomatico-  è l’asserzione che quello della “Revolucion” è uno Stato terrorista che serba intenzioni ostili nei nostri confronti. Altrimenti, perché dovremmo non avere relazioni con Cuba, come li abbiamo con la Cina, il Vietnam ed altri Stati non democratici? Il problema è che il nostro Governo attuale non riesce a trovare nemmeno un briciolo di prova credibile, per dimostrare la sua tesi. (…) Bush non ha nessun interesse a un dialogo con Cuba, che senza discussioni ha sempre combattuto il terrorismo. Perché questo potrebbe offendere gli esiliati della Florida, che sostengono la linea dura contro l’Avana, e tutto ciò potrebbe far perdere voti al fratello del presidente nelle elezioni alla carica di governatore dello Stato. (…) Ma sostenere che Cuba è uno Stato terrorista mina la nostra credibilità, laddove ne abbiamo più bisogno, nella lotta contro i veri terroristi>>. Quella che voglio raccontare quindi è proprio una storia che spiega questo clima, una storia di quelle che però faticano a trovare spazio sui giornali perché, nell’epoca della guerra “continua” o “preventiva”, non concede alcuna giustificazione alla politica dell’attuale governo degli Stati Uniti. Solo pochi giorni fa, all’inizio di aprile, è stato sospeso il carcere spietato, quello che si sconta ne “el hueco” (il buco, “la cassa”, come lo chiamano i detenuti latinoamericani) a cinque cubani arrestati negli Stati Uniti per cospirazione e condannati a pene tombali come quella di Gerardo Hernandez, un grafico e vignettista, ritenuto il capo del gruppo che dovrebbe scontare nel carcere di Lompok, in California, una pena pari a due ergastoli più 15 anni.  Dopo 33 mesi di attesa per il giudizio, 17 dei quali in isolamento e un mese di “hueco”, il ritorno dei cinque cubani ad una cella normale è avvenuto grazie ad una campagna internazionale alla quale hanno partecipato molti liberals nordamericani, perfino diversi deputati laburisti inglesi e Nadine Gordimer, scrittrice sudafricana, premio Nobel per la letteratura, ma nessun rappresentante di partiti progressisti italiani.
L’”hueco”, per spiegare meglio, è un buco di due metri per due dove bisogna stare senza scarpe, in mutande e maglietta; non si sa quando è giorno o notte, perché la luce è accesa ventiquattrore su ventiquattro; non si ha nessun contatto umano, neppure con i carcerieri e bisogna sopportare le grida continue di chi è recluso in quel braccio, riservato ai prigionieri molto aggressivi. Non era questo certo il caso di Gerardo Hernandez che, con i suoi compagni, si era solo rifiutato, nel processo tenutosi a Miami alla fine del 2001, di “collaborare” con la Corte. Aveva ammesso, come gli altri, alla vigilia del dibattimento, di essere un agente dell’intelligence cubana, da anni in Florida per scoprire chi organizzava gli atti terroristici contro il suo Paese. Ma l’Fbi voleva, in cambio della libertà promessa, che facessero dichiarazioni contro Cuba, sostenendo che il loro paese era un pericolo per gli Stati Uniti e che si erano infiltrati per ottenere, in realtà, informazioni sulla sicurezza nazionale Usa. Tutti autonomamente avevano deciso a quel punto di non collaborare e la loro fermezza aveva spiazzato la giuria. <<Perché –spiegarono– dovremmo contribuire a far del male al nostro Paese dopo che per anni abbiamo lasciato i nostri affetti, la nostra vita, per cercare di difenderlo?”>>

Gerardo Hernandez, Antonio Guerriero, René Gonzales, Fernando Gonzales e Joaquin Mendez, si erano infiltrati negli anni ’90 nelle organizzazioni paramilitari degli anticastristi di Miami che, dalla Florida, da tempo, organizzavano attentati contro Cuba per boicottare il turismo, vero motore della ripresa economica dell’Isola.

La novità clamorosa e inquietante consisteva nel fatto che gli Stati Uniti (pronti a giustificare qualunque azione in nome della lotta al terrorismo per la sicurezza interna) nascondessero, nelle pieghe più oscure della loro società, dei criminali pronti a esportare attentati in paesi come Cuba, per giunta definiti “stati canaglia” o addirittura conniventi con il terrorismo. In uno di questi attentati (dopo che le vittime erano state pescatori, contadini, agenti della guardia costiera, militari di leva) era  morto, il 4 settembre del ’97 all’Hotel Copacabana dell’Avana, anche un cittadino italiano, il giovane imprenditore Fabio Di Celmo, per una carica esplosiva messa da un tal Cruz, un salvadoregno ingaggiato da Luis Posada Carriles (vecchio specialista di operazioni sporche) al servizio, come il suo amico Orlando Bosh, della Fondazione cubano-americana di Miami. Questi due compari erano stati coinvolti anche nell’abbattimento dell’aereo di linea cubano nel 1976, al largo delle Barbados e nell’attentato al cancelliere cileno Letellier, a Washington, senza che nessun giudice nordamericano li avesse mai disturbati. E’ facile pensare, a questo punto, cosa sarebbe successo se questa trama avesse avuto un percorso inverso, cioè se qualcuno, dall’isola, si fosse messo a organizzare azioni delittuose negli Stati Uniti. Suscita quindi disagio constatare la precarietà con la quale, da quarant’anni, deve convivere Cuba, non solo per l’immorale embargo economico, condannato nel novembre scorso per la decima volta consecutiva dall’Onu (unici voti contrari, quelli degli Stati Uniti, Israele e delle Isole Marshall), ma anche per il blocco mediatico che minimizza queste storie e le elude. Cinicamente infatti si passa sopra al fatto imbarazzante che un piccolo paese, per anni, abbia dovuto preparare alcuni cittadini a rinunciare alla propria esistenza, per assicurare la sopravvivenza a tutti e, se nel caso, vivere un’altra vita, con un altro nome, un’altra casa, altri amici, tagliando per chissà quanto tempo (a volte per sempre) ogni legame con le proprie radici, con il proprio passato e i propri affetti.

Una storia di questo tipo, un po’ pirandelliana, è quella, per esempio, di René Gonzales, uno dei cinque cubani condannati, che aveva anche il passaporto nordamericano essendo nato negli Stati Uniti, figlio di un operaio metallurgico emigrato a Chicago e di una madre cubana, la cui famiglia veniva dal Nord Virginia. I nonni ed anche i genitori, forse per spirito patriottico, decisero di tornare a casa dopo lo sbarco fallito, nel ’61, alla Baia dei Porci da parte degli anticastristi sostenuti dalla mafia, ma abbandonati, all’ultimo momento, dal governo di John Kennedy. Forse quella decisione costò anche la vita al presidente della Nuova Frontiera. Ma questa è un’altra storia. René, cresciuto nei miti della Rivoluzione, diventa pilota d’aereo e istruttore di volo, mentre suo fratello Roberto si laurea in Legge. Ma un giorno, a sorpresa per tutti, René lascia la moglie e la figlioletta, dirotta un aereo addetto alla fumigazione dei campi e se ne va negli Stati Uniti dove viene accolto come un eroe perché ha lasciato dietro le spalle il comunismo di Fidel. A Miami, come per gli altri quattro compagni arrivati in Florida nei modi più disparati, comincia una nuova vita. Si infiltrano nelle organizzazioni terroristiche, in particolare in quella degli “Hermanos al rescate” (“Fratelli per il riscatto”) che ufficialmente si dedicavano al recupero dei “balzeros” (i profughi) ma, in realtà, organizzavano attentati di cui il loro capo, Josè Basurto, spesso si vantava anche pubblicamente e mettevano in atto provocazioni come quella di violare continuamente lo spazio aereo cubano con piccoli velivoli da turismo dai quali lanciavano, a bassa quota, volantini che incitavano alla sommossa. Proprio sulla pericolosità di queste azioni, il Governo dell’Avana, messo all’erta dalle informative proprio di René e del suo gruppo, aveva inviato al Governo degli Stati Uniti ben 23 note diplomatiche, prima che accadesse l’incidente dell’abbattimento di due di questi veicoli da parte della contraerea cubana. I “Fratelli per il riscatto” non solo violavano ormai in modo plateale lo spazio aereo, ma avevano cominciato ad inserirsi anche nelle frequenze radio delle torri di controllo degli aeroporti di L’Avana e Varadero, mettendo in serio pericolo le manovre di decollo e atterraggio degli aerei di linea. Al processo, militari degli Stati Uniti come il col. Eugene Carol e funzionari dell’amministrazione Clinton come Richard Nunzio, convocati dalla difesa, avevano testimoniato di aver avvisato Basurto che, come ha affermato uno di loro, “i cubani avevano perso la pazienza”. Dal dialogo con la torre di controllo dell’aeroporto di Opaloca non risulta invece che Basurto avesse avvisato i due compagni di avventura, poi abbattuti nell’ultima incursione, della pericolosità alla quale la situazione era arrivata. Dopo sei anni di questo delicato lavoro, René, intanto, era riuscito a farsi raggiungere dalla famiglia. E così, dopo dodici anni, aveva messo al mondo un’altra figlia. Ma è quella anche l’epoca in cui Fidel Castro e Bill Clinton, preoccupati, avevano cercato e trovato un dialogo diplomatico per una comune lotta al terrorismo. Così il governo dell’Avana, nel giugno del ’98, aveva trasmesso alla Fbi i resoconti avuti dal gruppo che agiva in Florida per disinnescare il terrorismo. Ma, a sorpresa, qualche mese dopo, quei documenti serviranno per far arrestare le cinque fonti dell’Intelligence cubana. Il primo processo, un po’ kafkiano, alla fine del 2001, si è svolto a Miami dove ben 17 avvocati designati dalla Corte hanno rifiutato l’incarico temendo le ripercussioni che poteva avere sul loro lavoro il fatto di aver difeso “una spia cubana” proprio nello stato dove la comunità anticastrista è più numerosa e aggressiva. <<Già per questo antefatto –ha sottolineato Paul McKenna, l’avvocato d’ufficio di Gerardo Hernandez- il giudizio secondo le nostre leggi non si sarebbe potuto svolgere a Miami.>> Nel corso del dibattimento poi, lo stesso pubblico ministero aveva dovuto riconoscere che i cinque cubani non avevano avuto accesso all’informazione sulla sicurezza nazionale, tanto che non aveva potuto accusarli di spionaggio, ma di “cospirazione al fine di commettere spionaggio”, cioè li aveva incolpati di avere intenzione di commettere un reato. Malgrado questo aborto giuridico, la giuria li ha condannati a pene tombali come mandanti dell’abbattimento dei due velivoli dei “Fratelli per il riscatto”, un’azione decisa dalla contraerea cubana in risposta alle provocazioni. Ora, il processo di appello si farà ad Atlanta. Leonard Weinglass, prestigioso difensore dei diritti civili, che ha assunto la difesa di Antonio Guerrero, ha dichiarato: <<Il governo degli Stati Uniti li ha sottoposti a giudizio, perché si stavano avvicinando troppo al mondo dei suoi terroristi>>. E, riguardo alla condizione carceraria dei cinque cubani, ha aggiunto che erano le peggiori che avesse mai visto. Più brutte di quelle del suo vecchio cliente, Mumia Abu Jamal, il giornalista e leader nero di Chicago che aspetta ancora di conoscere la sua sorte in un braccio della morte. Ora, Direttore, ho voluto raccontare questa storia perché, mi sembra, spieghi con chiarezza il clima della politica decisa da George Bush jr. verso Cuba e che ha fatto reagire il governo di l’Avana, purtroppo, con la ben nota sindrome dell’isola assediata. Ma 3 dirottamenti di velivoli in pochi giorni, il tentativo violento di deviare il corso del ferryboat in servizio nella baia di l’Avana risoltosi, dopo molte ore di paura, con la cattura e la condanna a morte degli autori del gesto, sono segnali di una strategia che ha a che fare non tanto con la dissidenza cubana, ma molto con i piani che Bush e il suo gabinetto hanno, in un prossimo futuro, anche per Cuba. Poiché sono contro la pena di morte, non posso accettare le condanne alla pena capitale degli autori del sequestro del ferryboat di Regla, ma è anche, sicuramente, inaccettabile la scelta di una strategia della tensione fatta da Bush jr. con l’invio all’Avana di un responsabile dell’Ufficio di interessi, James Cason, che non ha l’etica di un vecchio diplomatico democratico come Wayne Smith.  Cason è andato a Cuba con l’intento dichiarato (in imbarazzanti conferenze stampa) di sovvertire e di creare una situazione di scontro nel Paese. E ha fatto anche di più: ha incominciato a gestire, dal suo ufficio, “un traffico di dissidenti” comprando coscienze a basso prezzo: un computer, un po’ di dollari in contanti, qualche radio ricetrasmittente che hanno rivelato i suoi veri obiettivi. Un’operazione inquietante perché ha messo in crisi anche i dissidenti sinceri, quelli che non hanno avuto bisogno dei dollari per fare delle scelte. Ma, più che altro, questo aggressivo funzionario dell’amministrazione Bush, ha la responsabilità di aver scatenato, purtroppo, una reazione durissima da parte dello stato cubano. A quale obiettivo mira? La democrazia, si sa, non si afferma comprando le persone. Per questo mi ha colpito negativamente quella sinistra italiana, che si autodefinisce riformista e che legittimamente non dà tregua ai comportamenti della rivoluzione cubana e li stigmatizza quando questa eccede in decisioni illiberali, ma tace sempre su questi attacchi subiti da Cuba, su questi attentati al diritto di autodeterminazione dei popoli. Questi riformisti dimenticano anche quello che sta facendo l’attuale governo degli Stati Uniti che, in meno di un anno e mezzo (come ha sottolineato Noam Chomsky) si è negato a firmare più di dieci trattati di tutela dei diritti civili e umani che hanno trovato d’accordo, invece, la maggior parte dei paesi del pianeta. Non hanno nemmeno denunciato la preoccupante abolizione, di fatto, dell’istituto dell’habeas corpus, che ha condannato alla galera, finora negli Stati Uniti, più di duemila persone senza un’accusa specifica e senza che né parenti, né avvocati riescano a sapere nulla della loro sorte. Sono stati giudicati? Come? Quando? Perché? Sono state forse giustiziati, conformemente alla norma, alla “licenza di uccidere” voluta da Bush jr. subito dopo l’11 settembre? Per riuscire ad essere credibili nelle nostre richieste di maggior democrazia a Fidel Castro, non possiamo dimenticare questa crudele realtà e nemmeno le violazioni sistematiche dei diritti umani in paesi come la Colombia, il Guatemala, il Perù, la Bolivia, lo stesso Messico e altri paesi latinoamericani o asiatici (Birmania, Indonesia), dove noi facciamo finta di credere sia tornata la democrazia solo perché si vota, o sono nazioni convenienti alle nostre economie.

Gianni Minà

(per gentile concessione Latinoamerica n.82)

 

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