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             La polemica sul 17 
            marzo, giornata scelta per celebrare i 150 anni dell’Unità italiana, 
            con  dilemma di considerarla come giornata festiva o meno ha 
            sottolineato ancora una volta di più la confusione e la retorica 
            attorno alla storia del Risorgimento e del processo di unificazione 
            del paese, su cui le visioni acritiche di una parte e dell’altra 
            occultano l’analisi storica e politica di un avvenimento così 
            fondamentale. Se la risposta della 
            Lega è stata scontata e dettata dalla difesa della propria “identità 
            padana”, arrivando a esprimere la propria contrarietà in consiglio 
            dei ministri, lo scarso entusiasmo di Confindustria e la difesa 
            acritica del patriottismo con venature nazionaliste da parte di Pd e 
            sinistre deve far riflettere. Confindustria è 
            l’interprete più autentico della reale unità italiana, basata sullo 
            sfruttamento del Mezzogiorno, inaugurato anche prima della 
            fondazione dell’associazione padronale, col drenaggio della già 
            disastrata e inadeguata economia dell’ex regno delle Due Sicilie (la 
            tassa sul macinato, che unificò nella povertà le masse contadine 
            italiane, ebbe un effetto dirompente sul meridione). L’unificazione 
            condotta dal Piemonte rappresentò un fardello economico pesante e 
            insopportabile, con la politica liberista e basata su un pareggio di 
            bilancio scaricato interamente sugli altri stati italiani, con l’avvantaggiamento 
            a favore della concentrazione della grande industria. Il carico ulteriore 
            della leva militare, descritto da Verga nei Malavoglia con la morte 
            di Luca Toscano nella battaglia di Lissa del 1866, e una feroce 
            repressione delle proteste e delle rivolte contadine (spesso bollate 
            semplicemente come “brigantaggio”, quando la realtà era molto più 
            complessa) con vere e proprie rappresaglie come il massacro di 
            Pontelandolfo (piccolo centro del beneventano) di cui il prossimo 
            agosto ricorreranno i 150 anni. I mille e i 
            Garibaldi La spedizione dei 
            Mille aveva suscitato le speranze di gran parte del movimento 
            democratico e rivoluzionario d’Europa, che non solo con l’appoggio 
            della stampa degli esiliati italiani, ma anche di Marx ed Engels, 
            nonché di altri importanti esuli si spese per l’unità italiana. 
            Venne formata persino una legione di volontari ungheresi, e non 
            pochi russi e irlandesi militarono nelle fila garibaldine, proprio 
            perchè la rivoluzione democratica delle libere nazioni era vista in 
            chiave europea e internazionalista. Ma che unità avevano 
            in mente e che immagine di Garibaldi era presente tra i 
            rivoluzionari europei? Friederich Engels 
            scrisse, a nostro modo di vedere con lungimiranza, di come “l’insurrezione 
            siciliana ha trovato un capo militare di prim’ordine; speriamo che 
            l’uomo politico Garibaldi, il quale dovrà presto comparire sulla 
            scena, saprà conservare senza macchia la gloria del generale” (Marx, 
            Engels sull’Italia, ediz. Progress, Mosca 1976, pag. 175). I Mille non furono gli 
            iniziatori delle rivolte in Sicilia e nel Mezzogiorno, che già erano 
            cominciate un mese prima, e si basavano sulle tradizioni (a volte 
            secolari) ribelli delle masse meridionali e gli echi del ’48 
            napoletano e palermitano ancora erano presenti tra i ceti urbani e 
            quel sottile strato di “opinione pubblica”, cioè piccola borghesia 
            istruita schiacciata tra latifondo, nobiltà e borghesia mercantile. L’esercito borbonico 
            rompe le righe, dandosi alla diserzione o unendosi a Garibaldi sulla 
            base della prospettiva della terra ai contadini, della repubblica e 
            della libertà, aspettative presto deluse. Ma le attese contadine 
            di liberarsi dal latifondo, rafforzate dai decreti sulla 
            ridistribuzione della terra emessi da Garibaldi, furono accolte con 
            le fucilate di Nino Bixio a Bronte, con i compromessi stretti già 
            durante la preparazione della spedizione con i latifondisti 
            siciliani, ansiosi di poter trattare sulla base del libero scambio 
            con la Gran Bretagna (la Sicilia, attraverso la produzione del vino, 
            degli agrumi e del grano, era pienamente inserita nell’emergente 
            sistema di scambi capitalistico), incatenando le masse contadine 
            alla miseria più nera. Napoli venne 
            addirittura consegnata da Liborio Romano, già ministro di polizia 
            borbonico e a diretto contatto con gli ambienti della camorra, a 
            Garibaldi, per poi essere mandato a Torino come parlamentare del 
            nuovo Regno d’Italia, con un risultato plebiscitario in ben 9 
            collegi, esempio di come per il notabilato meridionale fosse 
            cambiato solo re, ma non sistema e profitti. D’altro canto, 
            difendere, come succede attualmente, le “conquiste” dei Borboni 
            oltre ad essere antistorico, rappresenta una distorsione della 
            realtà: se per l’esperimento del Setificio di San Leucio qualcuno ha 
            sprecato i paragoni con il socialismo utopista, nelle zolfare 
            siciliane, nei campi della Capitanata e nei quartieri di Napoli la 
            mortalità era elevata, non esistevano opere pubbliche, né alcuna 
            assistenza sociale. I Savoia riusciranno a fare di peggio, ma a 
            barbarie si sostituì altra barbarie, e colorare di rosa un passato 
            “mitico” e ricco di monumenti (per la nobiltà) non aiuta a 
            comprendere cosa realmente successe. Patrioti e padani Allo stesso modo non 
            possiamo rispondere al razzismo demagogico della Lega, come anche a 
            sinistra si fa, con un rilancio di patriottismo, magari benedetto da 
            Saviano e Fazio con il tricolore in prima serata. E la Federazione della 
            sinistra non è immune da questo se con una nota del 16 febbraio sul 
            sito del Pdci si proponeva: “una grande 
            manifestazione unitaria da tenersi il 17 marzo, giorno del 150° 
            dell’unità d’Italia. è la proposta che Oliviero Diliberto, al 
            termine della riunione del Coordinamento nazionale della Federazione 
            della sinistra, avanza a tutte le forze democratiche, a tutti gli 
            uomini e le donne che si battono perché l’Italia sia unita, 
            democratica, repubblicana. Ovviamente, il fine è 
            sempre lo stesso, la grande alleanza con la borghesia “buona” (vi 
            ricordate di Marchionne?) per cacciare Berlusconi: “è necessario – 
            afferma il portavoce nazionale della Federazione della sinistra – 
            contrapporre allo sfascio, all’illegalità, a quella sorta di 
            operetta a puntate che è il governo Berlusconi, il desiderio di 
            coesione, di valori comuni, di ricostruzione unitaria che anima la 
            maggior parte dei cittadini italiani”. (dal sito web del Pdci). Ora, la curiosità è 
            capire se il governo Berlusconi, dopo aver proclamato festività 
            nazionale il 17 marzo sia all’interno o no dei valori comuni di cui 
            Diliberto si dichiarava difensore. Oltretutto, da sardo, il 
            segretario del Pdci dovrebbe anche avere esperienza di cosa ha 
            significato quel tipo di unità per i pastori dell’isola, o di cosa 
            era l’Italia per chi ha sperimentato la disciplina della casta 
            militare sul fronte orientale nella Grande Guerra, come raccontato 
            da Emilio Lussu. O ancora cosa vuol dire oggi l’Italia unita, 
            democratica e repubblicana per Bruno Bellomonte, ferroviere e 
            indipendentista sardo incarcerato da oltre un anno senza capi 
            d’accusa se non una fumosa attribuzione di atti terroristici. Il richiamo al 
            patriottismo, una riedizione farsesca della “via italiana al 
            socialismo” di togliattiana memoria, cozza contro le migliori 
            tradizioni internazionaliste del movimento operaio del nostro paese, 
            trascurate a favore di una retorica tricolore che è speculare ed 
            opposta alla Lega Nord. L’opposizione al 
            federalismo non può essere limitata a una difesa dell’ordine 
            esistente, senza parlare della necessità di un piano generale del 
            lavoro e dell’occupazione per il Mezzogiorno, della sanità pubblica 
            e dell’istruzione per tutti, dell’esigenza per ogni militante 
            comunista di combattere le mafie, vero strumento, questo sì 
            unitario, per la borghesia del Nord e del Sud (i soldi, come 
            dimostrato anche dai proficui rapporti della ‘ndrangheta in 
            Lombardia, non sembrano essere meno graditi da qualche esponente 
            “padano” della prima ora). I comunisti e le 
            comuniste devono mantenere una posizione di classe, senza 
            declinazioni “unitariste” o scendere sul terreno “padano” o 
            “neoborbonico”: per gli internazionalisti non c’è né il verde, né il 
            tricolore, ma il colore rosso della rivoluzione. |