|  | 
          
          
          
        Intanto in Palestina…
        
        “PIOGGIA D’ESTATE” E ALTRE 
        DEL SIGNORE DEGLI ESERCITI 
        La strategia di Israele 
        per la Palestina e il Medio Oriente
          
        14/03/2007 
        
          
          
        
        Aizzerò gli egiziani contro gli egiziani: 
        
        combatterà fratello contro fratello, 
        uomo 
        contro uomo, 
        città 
        contro città, regno contro regno. 
        Gli 
        egiziani perderanno il senno 
        e io 
        distruggerò il loro consiglio; 
        per 
        questo ricorreranno agli idoli e ai maghi, 
        ai 
        negromanti e agli indovini. 
        Ma io 
        metterò gli egiziani 
        In 
        mano a un duro padrone, un re crudele li dominerà. 
        
        Oracolo del Signore, Dio degli eserciti. 
        Si 
        prosciugheranno le acque del loro mare, 
        il 
        fiume si inaridirà e seccherà. 
        I suoi 
        canali diventeranno putridi, 
        
        diminuiranno e seccheranno i torrenti d’Egitto, 
        canne 
        e giunchi ingialliranno… 
        I 
        pescatori si lamenteranno, gemeranno 
        Quando 
        gettano l’amo nel Nilo, 
        quanti 
        stendono le reti sull’acqua saranno desolati… 
        Non 
        riuscirà all’Egitto qualunque opera faccia: 
        il 
        capo o la coda, la palma o il giunco. 
        In 
        quel giorno gli egiziani diventeranno come femmine, 
        
        tremeranno e temeranno all’agitarsi della mano 
        che il 
        Signore degli eserciti agiterà contro di loro. 
        Il 
        paese di Giuda sarà il terrore degli egiziani, 
        quando 
        se ne parlerà ne avranno spavento,  
        a 
        causa del proposito che il Signore degli Eserciti 
        ha 
        formulato sopra di esso… 
        Il 
        signore percuoterà ancora gli egiziani, 
        ma, 
        una volta colpiti, li risanerà. 
        Essi 
        faranno ritorno al Signore, 
        lo 
        serviranno con sacrifici e offerte, 
        
        faranno voti al Signore e li adempiranno. 
        (Isaia 
        19) 
          
        La 
        bibbia come manuale di guerra 
        Basta sostituire “egiziani” con 
        “palestinesi”, o anche “arabi”, e le indicazioni del profeta del “Dio 
        degli eserciti”, forse il dio più disumano che paura e protervia del 
        Potere abbiano mai creato, quello del sacrificio di Giacobbe, quello che 
        ordinava di sterminare tutti coloro che si oppongono al popolo eletto, 
        donne, bambini, armenti e greggi compresi, tanto che non rimanga “pietra 
        su pietra”, assumono un’attualità che ai compilatori della bibbia nel 
        VII secolo A.C. dovrebbe dare un’immensa soddisfazione. Del “paese di 
        Giuda” non si può dire che non ottemperi ai vaticinii dei suoi referenti 
        teorici e che i suoi condottieri contemporanei, Ben Gurion, Golda Meir, 
        Begin, Shamir, Rabin, Netaniahu, Barak, Sharon, Olmert, non si siano 
        attenuti rigorosamente al Verbo, fino alle recenti operazioni a 
        denominazione meteorologica, da “Pioggia d’estate”, simultanea alla 
        campagna libanese, alle successive metafore meteorologiche, succedutesi 
        nel corso e dopo l’invasione del Libano e l’intervento detto di pace 
        dell’Unifil. Invasione e intervento che avevano e hanno tra i loro scopi 
        anche quello di neutralizzare il legame di solidarietà politico-militare 
        che si era andato intessendo tra resistenza libanese e resistenza 
        palestinese, come esplicitato dalla cattura dei due incursori israeliani 
        da parte di Hezbollah, successiva a quella del soldato israeliano 
        catturato a Gaza nel giugno del 2006. L’Unifil, infatti, collocandosi 
        sul territorio del paese aggredito e avendo tra le sue regole d’ingaggio 
        quelle che “permettono l‘uso della forza letale per impedire o eliminare 
        attività ostili, incluso il traffico illegale di armi, munizioni ed 
        esplosivi (illegale è evidentemente solo quello che rifornisce la 
        Resistenza) nell’area di competenza dell’Unifil”, serve oggi a coprire 
        le spalle all’esercito israeliano, gravemente messo in causa dalla 
        guerriglia libanese, e che così può concentrare le sue forze 
        sull’intensificazione delle operazioni di pulizia etnica in Gaza e 
        Cisgiordania. 
          
        Isaia reloaded
        Ma vediamo come i seguaci del “Dio degli 
        eserciti” hanno corrisposto alle aspettative. Dall’inizio della seconda 
        Intifada, innescata il 27 settembre dall’incursione del Primo Ministro 
        Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee, fino a fine gennaio 2007, 
        Tsahal, l’esercito 
        israeliano, aveva ucciso 5050 palestinesi, ne aveva ferito e mutilato 
        altri 49760 e incarcerato, senza imputazioni o processo, 10.400 (Palestine 
        National Information Center). Tra gli uccisi un quarto erano 
        minorenni e 351 donne, 150 pazienti erano morti perché bloccati ai posti 
        di blocco, 66 furono ammazzati a bastonate dai coloni, 36 erano 
        infermieri o medici impegnati nei soccorsi, 9 erano giornalisti, 220 
        erano atleti, 848 erano insegnanti o studenti, di questi sono stati 
        feriti 4.792. Rachel Corrie era una giovane pacifista statunitense 
        schiacciata sotto una ruspa mentre difendeva le case da demolire. Dei 
        detenuti “amministrativi” 1.150 soffrono di patologie croniche, 1.175 
        sono studenti, 330 sono bambini o ragazzi, 1.806 sono insegnanti e 118 
        sono donne. 1.147 sono state le aggressioni a giornalisti che, 
        diversamente dall’Iraq, non hanno potuto ancora essere tutti 
        embedded, o fatti fuori.  
         
          
        Quanto ai danni inflitti alla società 
        palestinese, 645 edifici pubblici sono stati distrutti, danneggiati, 
        resi impraticabili, 72.437 case sono state rase al suolo o rese 
        impraticabili, 12 scuole e università chiuse, 359 istituti educativi 
        bombardati, 43 scuole trasformate in strutture dell’esercito. Al 31 
        luglio 2006, quindi senza calcolare le successive devastazioni delle 
        varie “piogge d’estate” e di altre stagioni, erano stati distrutti dai 
        bulldozer 80.712 dunum di terra (800 ettari), sradicati 13.572.896 
        alberi, demoliti 784 esercizi commerciali e 788 allevamenti aviari, 
        sterminati 148.209 ovini, 12.151 bovini, 899.767 polli da carne, 350.292 
        polli da uova, 1.650 conigli d’allevamento. Distrutti anche 15.549 
        alveari, 1.785 pozzi, 207 fattorie, 33.792 dunum (34 ettari) di rete 
        irrigua con 979.239 metri di condutture idriche, 9.547 officine e 
        laboratori, 432 impianti industriali. La confisca di terreni palestinesi 
        ammontava a 247.291 dunum. Risultato di questo corollario di un 
        genocidio pianificato: il 70% della popolazione palestinese vive oggi 
        sotto il livello di povertà, un terzo, secondo il Programma Alimentare 
        Mondiale dell’Onu, rischia la morte per inedia. A questo si aggiungeva 
        il blocco degli aiuti europei, il furto israeliano dei dazi per le 
        esportazioni palestinesi e dei fondi depositati nelle banche dei 
        territori occupati, giustificati, in perfetta assonanza con le 
        indicazioni israeliane, dalla libera elezione di un governo di 
        “terroristi”. Il Programma Alimentare  delle Nazioni Unite denuncia che 
        nel 2006 il 46% dei palestinesi non ha potuto procurarsi il cibo di cui 
        aveva bisogno per non finire in malnutrizione. 150.000 dipendenti 
        pubblici non hanno ricevuto gli stipendi, causa il blocco dei dazi e 
        degli aiuti e il sequestro delle donazioni dei paesi musulmani, in un 
        caaso addirittura dalla borsa del Primo Ministro palestinese, sotto gli 
        occhi dei carabinieri italiani dislocati al valico di Rafah: ne paga le 
        conseguenze un milione di persone che dipendevano da tali stipendi. 
          
        “L’unico arabo buono è l’arabo morto ammazzato”
        “Gli 
        arabi dovranno sparire, ma ci vuole una guerra per farlo succedere” (David 
        Ben Gurion, 1937) “Un popolo 
        palestinese non esiste… Non è vero che noi siamo venuti, li abbiamo 
        buttati fuori e abbiamo preso il loro paese. Non esistevano” 
        (Golda Meir, su “The Sunday Times”, 15/6/1969) 
        Giugno 1967. Mollati i fervori e le 
        amenità della Londra swinging 
        degli anni ’60, trascorsi con in mano il microfono della BBC alla caccia 
        dei Beatles, ma già anche delle rivolte civili in Irlanda del Nord, 
        “Paese Sera” mi spedì alla Guerra dei Sei Giorni. Arrivai in uno Stato 
        che tutti dicevano minacciato di essere cancellato dalla mappa 
        geografica, ma che intanto stava spazzando via i resti di un popolo 
        indigeno e mangiandosi quel 22% di Palestina che l’ONU, con la 
        spartizione del 1947, gli aveva lasciato. Allora gli ebrei, il 7% della 
        popolazione, si erano beccati il 78% del territorio. Ma non gli era 
        bastato. Secondo quanto ricostruito da Ilan Pappe, professore di Scienze 
        Politiche all’Università di Haifa, la pulizia etnica dei palestinesi 
        negli anni prima della Guerra dei Sei Giorni, aveva già fatto un gran 
        lavoro: 400 villaggi erano stati cancellati dalla carta geografica. Se 
        ne possono osservare, tra arbusti e muschi, i resti di bianca pietra 
        nelle valli sovrastate dai moderni centri israeliani; un milione di 
        palestinesi erano stati espropriati e cacciati.  
          
        Viaggiando su carri armati israeliani con 
        l’Olivetti 22 sulle ginocchia, passavo sopra villaggi arabi millenari  e 
        tra turbe di nuovi profughi di un popolo che Golda Meir diceva non 
        esistere. La gran parte di quei villaggi erano stati polverizzati negli 
        anni successivi al 1948, quando la madre di tutti i terrorismi, le bande 
        Haganà, Stern, Irgun di coloro che poi furono primi ministri negli anni 
        ’70 e ’80, facevano saltare in aria gli alberghi con dentro i mandatari 
        britannici, o i non sufficientemente succubi rappresentanti dell’Onu e, 
        successivamente, centri abitati e tutti coloro che non accettavano 
        istantaneamente l’invito ad andarsene.   
          
        A conquista avvenuta, dopo il 6 giugno, si 
        organizzarono tour ai nuovi territori. Viaggiando verso Gaza, dal 
        pullman vedevo corpi di soldati egiziani che si disfacevano sotto le 
        mazzate del sole e il becco degli avvoltoi. Al capitano di 
        Tsahal, che ce li indicava 
        con aria compiaciuta, chiesi se non fosse costume in Israele seppellire 
        i nemici morti in battaglia, o renderli al  loro paese, come dettato 
        dalla Convenzione di Ginevra. Il tipo scosse le spalle e pronunciò la 
        frase che poi sarebbe divenuta una specie di karma israeliano: “L’unico 
        arabo buono è l’arabo morto ammazzato”. Non era l’espressione di un 
        razzismo personale, particolarmente incallito: i giornali, i manifesti, 
        le scritte sui muri, le dichiarazioni dei boss militari e politici, 
        traboccavano di arabi “cani”, “scimmie”, “ratti” e “serpenti”. Discesi 
        dall’autobus a Tel Aviv, chiesi al capitano se non ritenesse poco civile 
        la definizione data. Mi questionò se non fossi per caso antisemita. 
        Risposi che semmai lo era lui, visto che tutti quei arabi buoni perché 
        ammazzati erano semiti. Finì in rissa sul marciapiede e l’indomani fui 
        espulso da Israele.  
        Ci tornai solo per le Intifade, presto 
        stigmatizzate come “violente” dai liquidazionisti ontologici alla 
        Bertinotti, visto che non si limitavano a opporre alle granate 
        israeliane la maglietta sbrindellata e, addirittura, la mano col sasso. 
        Prima di essere buttato fuori da Israele, però, ero riuscito a sottrarre 
        alla democratica censura militare israeliana e a spedire al mio giornale 
        un pezzo, basato su confidenze palestinesi, che raccontava  un obbrobrio 
        degno dell’atteggiamento del mio capitano. Reparti speciali israeliani, 
        denominati Shaked, sotto 
        il comando di Benyamin Ben Eliezer, “eroe della Guerra” e oggi ministro 
        delle infrastrutture, avevano massacrato almeno 250 egiziani e 
        palestinesi che si erano arresi. I poveri corpi anneriti che avevo visto 
        dal finestrino potevano ben essere le vittime di quell’abominio, uno dei 
        tanti con cui lo Stato sionista ha ignorato, oltre a 170 decisioni ONU, 
        ogni norma del diritto internazionale e delle convenzioni di Ginevra.  
        Episodio del resto non nuovo per 
        Tsahal, visto che nella guerra del 1956, scatenata contro 
        l’Egitto di Nasser, il generale  Ariel Biro aveva ammazzato una 
        cinquantina di prigionieri egiziani, massacro poi da lui ammesso nel 
        1995: “Era difficile portarseli 
        dietro. Lo rifarei”. Episodio, anche, inserito in una pratica 
        del mancato rispetto per il non ebreo che si esplicita in ogni 
        manifestazione ufficiale e ufficiosa dello Stato e, ahinoi, spesso anche 
        della società israeliana. Si pensi alla tortura dei detenuti sancita 
        dalla Corte Suprema, si pensi ai 150 cadaveri palestinesi sequestrati, 
        tenuti in un cimitero cosiddetto “dei numeri” e mai restituiti ai 
        congiunti, violando, attraverso questa ennesima punizione collettiva, la 
        Quarta Convenzione di Ginevra. Si pensi alla recente norma per la quale 
        i palestinesi cittadini di Israele (il 22% della popolazione), oltre a 
        vessazioni e negazione di diritti di ogni genere, devono subire 
        l’affronto razzista di non poter sposare palestinesi dei territori 
        occupati se non al prezzo di abbandonare il paese di cui hanno la 
        cittadinanza.Tutti metodi poi ampiamente praticati dagli Usa, insieme ad 
        altri insegnamenti tratti dall’esperienza britannica in Irlanda e  
        israeliana in Palestina, nelle invasioni di Iraq, Somalia, Afghanistan e 
        nella tragica vicenda del kissingeriano“Piano Condor” per l’ America 
        Latina delle sanguinarie dittature militari filo-yankee. 
          
        Sinistre per Israele
        Fausto Coen, direttore di “Paese Sera” non 
        credette possibile una tale nefandezza e mi spedì un telex furibondo. 
        Allora anche la Sinistra era schierata con il “popolo di sopravvissuti 
        tornato nella terra degli avi e minacciato di essere ributtato in mare  
        da ondate di oscurantisi arabi”. E pensare che già allora, grazie agli 
        enormi aiuti USA, quelli che tuttora tengono in piedi lo Stato 
        dell’apartheid, Israele era il sesto più potente esercito del mondo e 
        disponeva di almeno 200 delle attuali 400 bombe nucleari, senza aver mai 
        aderito ai trattati di non proliferazione e aver mai ammesso le 
        ispezioni dell’AIEA, quelle che Washington e Tel Aviv giornalmente 
        sollecitano a mettere il naso nell’arricchimento dell’uranio – fino a 
        prova contraria  a fini civili - dell’Iran. L’Europa si nettava la 
        coscienza dalla Shoa, scaricandone sugli innocenti arabi, già tragiche 
        vittime del colonialismo europeo, la vendetta ebraica. Oggi la storia si 
        ripete, mai in farsa, ma in un’escalation
        di crimini e complicità internazionali. Allora, comunque, la 
        linea del giornale cambiò e diventò più equilibrata, Coen dovette 
        andarsene e il mio scoop  fu corroborato, seppure molti anni più tardi, 
        da un documentario israeliano e da vari militari  di 
        Tsahal  pentiti. Oggi, dopo 
        uragani di aggressività “difensiva” israeliana siamo tornati al punto di 
        partenza. La “Sinistra per Israele”, manifestatasi nelle piazze di Roma 
        con protagonisti come Walter Veltroni e Giuliano Ferrara, è 
        l’espressione più stupefacente del rovesciamento delle posizioni di 
        questi ex, contro ogni equità etico-politico-giuridica.  
          
        
        Ahmadinejad parla di 
        cancellare lo Stato sionista, Olmert cancella il popolo palestinese per 
        davvero 
        Per il primo ministro iraniano, come 
        sempre impegnato su più fronti - di collusione-collisione con gli 
        angloamericani a scapito dell’Iraq unito, di appoggio alla resistenza 
        nazionale libanese e a Hamas, di intesa con la Siria per impedire la 
        rinascita nazionale dell’Iraq e contenere l’espansione di Israele - 
        l’aggressione al Libano è l’occasione per  augurarsi la cancellazione 
        dalla mappa geografica dello Stato Sionista. Badate bene, dello “Stato”, 
        non della sua gente. Dello Stato, come ampiamente esplicitato da 
        Ahmadimejad, ma non riportato dai media occidentali impegnati in una 
        nuova satanizzazione colonialista. Dello Stato in quanto “Stato degli 
        ebrei”, come lo ha definito ancora nel febbraio 2007 il premier Prodi 
        sotto dettatura dell’ospite Olmert, cioè Stato monoetnico e 
        monoconfessionale, Stato dell’apartheid costituzionale, dei palestinesi 
        israeliani ridotti a untermenschen, 
        subumani, e dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania esclusi e rimossi. 
        L’ermeneutica di Israele, dal progetto di Hertzl alla realizzazione di 
        Ben Gurion e alle successive aggressioni, liquidazioni, espansioni, non 
        può che produrre questa valutazione. Naturalmente l’esternazione del 
        dirigente persiano sollevò uno tsunami di indignazione in tutto 
        l’Occidente, tanto da servire sostanzialmente, non a far riflettere 
        sulla natura di quell’architettura statale, già definita razzista dall’Onu 
        nel vertice di Durban, ma a demonizzare i musulmani, dall’esponente più 
        potente a discendere per li rami, fino a Hezbollah, Hamas, la Resistenza 
        irachena. E questo, proprio nel momento in cui Israele a Nord assaliva 
        il Libano e ne disintegrava l’agibilità statale e il tessuto sociale ed 
        economico e, a Sud, con l’operazione “Pioggia d’Estate”, si apprestava a 
        chiudere i conti con Gaza, prima, e con la Cisgiordania poi. La barbarie 
        con la quale si procedette, nella fase iniziale della penetrazione in 
        Libano, contro i cittadini di Gaza, già vessati da decenni di 
        occupazione, assassinii mirati, assedio per fame e sete, paralisi 
        economica, distruzione di centri abitati nella fase iniziale della 
        penetrazione in Libano, si pensava coperta dal giubilo occidentale per i 
        trionfi dell’esercito notoriamente invincibile e per la liquidazione di 
        un altro nido del “terrorismo islamico”. Solo stavolta l’Europa ebbe un 
        sussulto di perplessità. L’accanimento israeliano nella fase finale, con 
        l’offensiva delle ultime 72 ore, fallita anche quella, e la relativa 
        pioggia di un milione di bombe a grappolo, era l’espressione di una 
        frustrazione al limite della nevrosi, sul tipo delle accentuate nequizie 
        della cosca Bush nella fase dell’evidente declino. Il vento, però, 
        cambiò ancora, a tregua israelo-libanese conclusa (dopo i rinvii voluti 
        da Bush e anche da D’Alema, con quella sua fasulla “conferenza di pace” 
        a Roma), quando “l’effetto Shoa” fu rilanciato da una ben sincronizzata 
        orchestra mediatica internazionale e tutti fummo invitati a compiacerci 
        con un Israele che aveva finalmente accettato di porre fine al 
        versamento di sangue. Vi si accodarono tutti coloro che si supponevano 
        rappresentanti delle istanze di uguaglianza e giustizia. Perfino entità 
        organizzate che si situavano all’interno del fronte antimperialista e 
        antisionista si dichiararono disponibili a sostenere elettoralmente il 
        sindaco Veltroni, colui nel quale Israele e i suoi sostenitori nella 
        comunità ebraica vedono il più risoluto loro alleato.Vennero a crearsi 
        le circostanze perché, all’ombra di questa benevolenza, il governo 
        israeliano accentuasse a livelli parossistici la repressione a Gaza – 
        bombardamenti indiscriminati, incursioni stragiste, sequestro e 
        detenzione di ministri e parlamentari eletti, infiltrazione di 
        provocatori - per arrivare alla tanto sospirata guerra civile 
        palestinese che, oltre a dissanguare ulteriormente quel popolo, portasse 
        alla liquidazione, con Hamas e Jihad, di ogni resistenza ai piani di 
        colonizzazione-espulsione-liquidazione. Progetto condiviso sul piano 
        pratico e diplomatico da Italia, Europa e cosiddetta “comunità 
        internazionale”, cioè l’insieme dei paesi neo-protocapitalisti 
        partecipi, in minore o maggiore misura, della controffensiva 
        colonialista e imperialista. Ancora una volta si manifestava lo 
        spudorato sistema dei due pesi e due misure, che vedeva questi aggregati 
        negare riconoscimento al governo legittimamente eletto di Hamas, mentre 
        sosteneva il governo libanese di Fuad Sinora, reso illegittimo dalla 
        defezione dei ministri dell’opposizione in  segno di protesta contro le 
        privatizzazion di ogni cosa e la svendita del paese ordinata dagli Stati 
        “donatori” (di crediti). A tale ipocrisia si sottraeva in Occidente il 
        solo Hugo Chavez. Il governo del Venezuela bolivariano, infatti, oltre a 
        non risparmiare critiche ai guerrafondai israeliani, al punto da 
        ritirare il proprio ambasciatore, invitava formalmente il movimento 
        Hamas a visitare Caracas, sfidando così la propaganda Usa che già aveva 
        indiziato il Venezuela di ospitare “cellule del terrorismo islamico”. 
          
          
        Mossad: operazione “Al Qaida in Palestina”
        La popolazione dei territori occupati non 
        dava segno di cedimento generalizzato, qualsiasi misura di costrizione 
        Israele applicasse nei suoi confronti, a Gaza in particolare (gli orrori 
        di Jenin, Nablus e Ramallah verranno ripresi più tardi, quando 
        l’opinione pubblica occidentale sarà distratta dal precipitare degli 
        eventi in Afghanistan), incluse la disumana confisca delle tasse dovute 
        ai palestinesi per le loro esportazioni e la partecipazione a blocco 
        finanziario e assedio genocida di un’Europa ormai priva di ogni remora 
        morale, fino all’incredibilmente tollerato, già citato, sequestro dei 
        ministri e deputati di Hamas. Nè questa popolazione, pur provata da 
        oltre mezzo secolo di inenarrabili persecuzioni, si disponeva a 
        schierarsi in massa con quel gruppo dirigente, capeggiato dal presidente 
        Mahmud Abbas (Abu Mazen), dai negoziatori disfattisti di Oslo e 
        dall’”uomo forte” Mohammed Dahlan, losco speculatore al servizio di Cia 
        e Mossad, che rifiutava di riconoscere il verdetto delle democratiche 
        elezioni e che ogni singolo palestinese non clientilizzato percepiva 
        come corrotto e capitolazionista. Il significato del consenso ad Hamas 
        sta tutto qui, e molto meno in una fiammata di religiosità 
        “integralista”. 
          
        Già nel 2002 e nel 2003 i servizi 
        israeliani avevano tentato l’operazione che avrebbe dovuto 
        criminalizzare la resistenza palestinese al pari di quella irachena e, 
        al tempo stesso, innescare finalmente quella guerra civile 
        interpalestinese che si sarebbe risolta, grazie all’appoggio armato, 
        economico e d’intelligence israelo-americano, a vantaggio di Abu Mazen e 
        dell’eterno progetto sionista di frammentare quanto resta della 
        Palestina. Frammentazione foriera di ulteriori espansioni israeliane, 
        visto che in tali condizioni di invivibilità qualsiasi popolo si sarebbe 
        visto costretto a togliere il disturbo definitivamente. Si trattava di 
        far spuntare a tutti i costi, tra le varie genuine schiere della 
        Resistenza civile e armata palestinese, il bubbone Al Qaida. “Scoprire” 
        che anche i palestinesi, come si era tentato con gli iracheni, afgani e 
        come si teorizzava già per l’America Latina, si erano affidati allo 
        spettro Osama Bin Laden, avrebbe eliminato ogni  dubbio di governi e 
        opinioni pubbliche verso il paradigma di un “Israele che si difende dal 
        terrorismo islamico”, quello delle carneficine di civili innocenti da 
        New York a Londra, da Madrid a Casablanca e a tutto il mondo. 
          
        Solo che l’operazione finì malissimo. In 
        ben due occasioni, 2002 e 2003, i servizi segreti dell’ANP (Autorità 
        Nazionale Palestinese), ancora non “normalizzati” dai collaborazionisti 
        dentro Fatah, avevano scoperto l’infiltrazione di finti alqaidaisti 
        palestinesi e autentici agenti israeliani, li avevano neutralizzati e 
        processati, ottenendone ammissioni e prove. Non fosse stato occultato 
        dai soliti amiconi Gianni Riotta, De Aglio, Ezio Mauro, Giuliano 
        Ferrara, Simonetti, Paolo Mieli e affini, il fatto avrebbe dovuto 
        suscitare anche in Italia uno scandalo di proporzioni enormi e gettare 
        un’ulteriore luce sinistra, ma illuminante, sull’ 11 settembre e 
        seguenti, come sul corollario dell’equidistanza bertinottiana da 
        guerrafondai e “violenti”, formulata nei termini fuorvianti della 
        “spirale guerra-terrorismo”. 
          
        Guerra civile costi quel che costi. Mentre Marwan Barghuti, il leader 
        dell’Intifada, dal carcere…
        Tre anni dopo, ci fu ancora un tentativo 
        israeliano di evocare cellule di Al Qaida in Palestina, ma nacque 
        fragile per i precedenti insuccessi e fu abbandonato a favore 
        dell’inasprimento feroce delle condizioni di vita nei territori occupati 
        e fu compensato dalla totale subordinazione a Israele e agli Usa del 
        gruppo dirigente di Al Fatah. Subordinazione ottenuta a dispetto delle 
        reiterate proposte di riconciliazione nazionale, finalizzata alla 
        resistenza,  formulate dai prigionieri di tutte le fazioni nelle carceri 
        israeliane e articolate nel 2006 dal leader dell’Intifada, arrestato (e 
        forse venduto) nel 2002 e poi condannato all’ergastolo, Marwan Barghuti. 
        Di Barghuti, uomo minuto e rotondetto, ma dagli occhi sorridenti e 
        affilati e dal carisma irresistibile, ho alcuni forti ricordi. Spicca 
        quello di una indimenticabile notte di capodanno che inaugurava il nuovo 
        millennio e che, nell’invocazione delle masse raccolte nella piazza Al 
        Manara di Ramallah e nell’impegno delll’amatissimo Marwan, doveva essere 
        “l’anno dell’indipendenza”. Nei diversi incontri che avemmo, non vi fu 
        mai un accenno di critica o di repulsa nei confronti di un’Intifada che 
        era stata costretta ad optare anche per la lotta armata in risposta, per 
        quanto inadeguata, al terrorismo israeliano dei carri Abrams e degli 
        F16. Ciò potrebbe spiegare la vergognosa assenza di reazioni occidentali 
        alla cattura di Barghuti, protetto anche dall’immunità parlamentare, e 
        che si esplicitò in termini particolarmente deprimenti in una direzione 
        federale del PRC a Roma, nella quale, al mio resoconto di un viaggio in 
        Palestina, il responsabile esteri e poi capogruppo parlamentare del 
        partito, Gennaro Migliore, oppose con foga astiosa un veto categorico: 
        “Intifada fino alla vittoria non sarà MAI una parola d’ordine di 
        Rifondazione!”. Pensare che quello slogan di Marwan stava riecheggiando 
        da anni tra le masse palestinesi e le persone perbene di tutto il mondo. 
        A tal punto si era evoluta la filosofia bertinottiana della 
        “non-violenza”, condivisa dalle Ong in famelica attesa di nuovi 
        banchetti allestiti dagli aggressori. Una non-violenza che si abbatteva 
        come un’anatema sugli inermi, oppressi, esclusi, schiavizzati che 
        osassero alzare la testa, e non faceva parola degli interventi 
        “umanitari” in Somalia, Afghanistan o Libano, domani in Sudan, come 
        auspicato dal microsegretario del PRC, Franco Giordano, purchè “ONU” o 
        addirittura “Nato”, né delle industrie di armi, né delle basi Usa che 
        vaiolizzano il territorio nazionale, né dei trattati di mutuo 
        colonialismo con Israele e Usa.  
          
        Incontrai Barghuti durante una conferenza 
        congiunta  dei vecchi dirigenti reduci dall’esilio tunisino, capeggiati 
        da Yasser Arafat, già recluso da Israele nel suo palazzo presidenziale a 
        Ramallah, e dei nuovi quadri formatisi, sotto Barghuti, nell’Intifada 
        1987-1992, quella poi sterilizzata dalla megatruffa degli accordi di 
        Oslo che privavano la Palestina di vera sovranità e viabilità 
        economico-militare e i suoi cinque milioni di profughi del diritto al 
        ritorno. Tornavo da violentissimi scontri all’uscita da Ramallah verso 
        il campus di Bir Zeit, dove qualche decina di ragazzi aveva ingaggiato 
        un reparto israeliano con sassi e fionde per rivendicare la liberazione 
        del loro presidente, la libertà d’accesso a quella università e la fine 
        del blocco attorno alla città. Avevo ancora addosso le macchie di sangue 
        di qualcuno delle decina di “violenti” che erano stati colpiti dalle 
        pallottole di risposta israeliane. Era un Arafat malmesso mentalmente e 
        fisicamente, forse già minato da quel veleno, scoperto dagli analisti di 
        Parigi e confermato dal consigliere di Sharon, Uri Dan. Un veleno, 
        secondo il libro di Dan, “Ariel Sharon, un ritratto intimo”, 
        somministrato per ordine del suo capo e che  avrebbe portato Abu Ammar 
        alla morte (www.uruknet.info?p=29419). Ripeteva, il mitico Abu Ammar 
        degli anni ’70, stereotipi un po’ retorici sulla “terra di tutte le 
        religioni, la terra della pace”, su un Rabin presunto amico e presunto 
        pacifista, sulla disponibilità all’accordo con i migliori (?) degli 
        israeliani. Non accennava al diritto al ritorno, né allo sgombero delle 
        colonie. Osservavo intanto Barghuti che, da un lato, lo osservava come 
        si guarda un genitore un po’ debilitato, mentre al suo entourage di 
        vecchi marpioni, Abu Mazen, Abu Ala, Erekat, riservava sorrisi 
        sarcastici, venati di disprezzo. Chi  voleva, poteva già allora 
        percepire lo iato profondo che si era andato aprendo tra dirigenti 
        palestinesi che speravano di accomodare il proprio potere e i propri 
        beni tra le pieghe di una sistemazione in piccoli feudi all’ombra del 
        dilagante impero sionista, e quei giovani, scaturiti dalla lotta di 
        popolo, che rifiutavano ogni idea di rinuncia ai diritti sanciti dalla 
        legge internazionale e dai diritti umani. 
          
        Un governo di unità nazionale: anatema in Libano come in Palestina. Chi 
        fa uso di “scudi umani”?
        Ogni volta che rallentava lo scontro 
        fratricida tra opposte fazioni palestinesi, Israele tornava a 
        incrementare le proprie incursioni omicide, a Gaza come in una 
        Cisgiordania meno scossa dal conflitto endogeno. Qui, anzi, si 
        riconfermò il volto particolarmente odioso della repressione israeliana. 
        Israele aveva ripetutamente accusato i palestinesi di farsi scudo dei 
        propri bambini, accusa fondata esclusivamente sul fatto che, di propria 
        iniziativa ragazzini palestinesi partecipavano al lancio di pietre, e la 
        stessa accusa era stata lanciata contro gli Hezbollah ogni volta che le 
        incursioni dell’aviazione con la stella di Davide avessero provocato 
        carneficine tra civili. Si manipolava il dato manifesto che Hezbollah 
        combatteva in difesa delle proprie case e delle proprie terre e che, 
        dunque, i combattenti che resistevano all’invasione erano gli stessi 
        abitanti e contadini di quella zona. Ripetutamente, invece, palestinesi 
        e testimoni stranieri avevano denunciato l’uso di donne e bambini come 
        scudi umani  da parte di Tsahal. 
        Ma nemmeno la foto agghiacciante di un ragazzino palestinese, legato sul 
        cofano di un blindato israeliano, aveva scosso dal loro complice torpore 
        i media internazionali. Ci volle, nel marzo 2007, un eccesso di 
        protervia delle truppe israeliane in operazione di rastrellamento a 
        Nablus, per permettere ad alcuni operatori di riprendere queste unità 
        mentre si facevano precedere da ragazzini, donne, in un caso da una 
        bambina di 11 anni, Jihan Daadush, poi intervistata da Al Jazira, nelle  
        irruzioni  in case di presunti “terroristi”. A scanso di reazioni 
        armate, o di trappole esplosive. Non a caso è di quei giorni di marzo il 
        risultato di un sondaggio condotto dalla BBC in tutto il mondo che 
        rivela come per l’opinione pubblica internazionale lo Stato che 
        “maggiormente mette in pericolo la pace nel mondo” fosse Israele, 
        nientemeno. In un battibaleno tutto il gigantesco sforzo di 
        disinformazione, occultamento e vittimismo con cui i media mondiali 
        avevano accompagnato guerre, repressioni e pulizie etniche israeliane, 
        era andato in fumo. Del comunicato della mia vecchia emittente londinese 
        degli anni ’60, a quel tempo più affidabile, si parlò al meglio come di 
        una “gaffe”. 
          
        Le spaventose condizioni sul filo tra un 
        brandello di vita e una morte in agguato dai cieli, dal mare (inibito ai 
        pescatori di Gaza la pesca nel mare antistante, 30% del prodotto di 
        quella terra, salvo volersi beccare le salve delle motovedette 
        israeliane), da terra, dai negozi vuoti, dai salari negati dall’ANP se 
        non ai propri fedeli, sono alla fin fine riuscite a minare la secolare 
        unità anticolonialista del popolo palestinese. Vi si aggiunsero le 
        provocazioni armate contro esponenti e militanti Hamas della Guardia 
        Pretoriana di Abu Mazen, paradossalmente pagata, istruita e armata dal 
        massimo alleato del nemico, gli Usa, come documentato dal sionista 
        neocon Elliot Abrams, vicepresidente del Consiglio di Sicurezza 
        Nazionale, che precisò come i miliziani di Fatah venissero addestrati da 
        statunitensi in due campi, a Ramallah e a Gerico.  Dai e dai, queste 
        provocazioni riuscirono a suscitare una risposta. Le milizie armate 
        delle varie fazioni, Al Fatah , con la sua formazione dei “Martiri di Al 
        Aqsa”, da un lato, Hamas, Jihad e Comitati Popolari dall’altro, si 
        affrontarono in tutta la striscia di Gaza e scaricarono altre vittime 
        sulla montagna di morti ammazzati da Israele nel corso dei 7 anni 
        dall’inizio della Seconda Intifada. Gli ultimi mesi del 2006 e i primi 
        dell’anno dopo, videro un susseguirsi di scontri e di tregue, queste 
        ultime a volte imposte direttamente dalla rivolta popolare contro il 
        demenziale scontro fratricida, come nell’occasione del clamoroso 
        intervento delle donne di Gaza che, contro i continui sfracelli di case 
        da parte di Israele, si affollarono sui tetti e davanti alle facciate, 
        facendosi scudi umani in una compattezza eroica che svergognava gli 
        istigatori e protagonisti della “guerra tra poveri”. Chi più povero, chi 
        meno grazie alla subalternità al dominatore: conferma del carattere di 
        lotta di classe, anche nel contesto di una guerra di 
        liberazione.           
          
        Una mano a Usa e Israele anche da Al Qaida
        La crescente insofferenza della 
        popolazione per un conflitto che deviava dal nemico principale e, in 
        particolare, per l’arrendevolezza dell’ANP verso un Israele che aveva 
        abbandonato qualsiasi disponibilità vera al negoziato, al di là della 
        farsa detta Road Map del 
        “Quartetto Usa, Onu, Ue e Russia” (una cortina fumogena servita solo a 
        occultare le incessanti annessioni israeliane di territorio palestinese 
        e di Gerusalemme), aveva sventato il proposito di Abu Mazen di ricorrere 
        a elezioni anticipate per farla finita con il governo di Hamas uscito da 
        impeccabili elezioni democratiche. A questo punto Abu Mazen si vide 
        costretto a una mossa che pretendeva di dare ascolto alla richiesta 
        popolare per quel governo di unità nazionale che il premier di Hamas, 
        Ismail Haniyeh, aveva ripetutamente proposto a Fatah. Accolse il 
        suggerimento del re saudita, Abdallah II, e incontrò alla Mecca il 
        leader di Hamas, Khaled Mashaal,  per riprendere il discorso del governo 
        di unità nazionale. Si era nel febbraio 2007 e la Segretaria di Stato, 
        Condoleezza Rice, di suo e per urgente input dei dirigenti israeliani, 
        immediatamente si precipitò in zona per esprimere, in sincrono con 
        Olmert, tutte le “perplessità” del suo capo circa questi, evidentemente 
        pericolosi, sviluppi politici palestinesi. Alla vigilia della firma alla 
        Mecca dell’accordo tra Mashaal e Abu Mazen, venne poi l’immancabile 
        provocazione israeliana, destinata, come a suo tempo la passeggiata di 
        Sharon sulla spianata delle moschee, a rinfocolare le tensioni: lavori 
        di scavo a pochi metri dalla spianata, segnale di ulteriori incursioni 
        territoriali fatte passare per archeologiche, con conseguenti scontri 
        tra palestinesi e militari israeliani. Immancabile anche, a questo 
        punto, l’intervento dei collateralisti Al Qaida che, con il sedicente 
        numero due della presunta formazione terroristica, Aiman Al Zawahiri, 
        attaccava con un video Hamas “per aver svenduto la causa palestinese con 
        la disponibilità a un governo di unità nazionale con i traditori”. Il 
        “telefono rosso” tra la Cia di Langley e il misterioso rifugio, presunto 
        nelle caverne afgane, dei generali di Al Qaida aveva funzionato. Ancora 
        una volta – come nel caso delle puntuali uscite di Osama e di Zawahiri 
        ogni volta che Bush si trovasse in difficoltà, al fine di rafforzarne il 
        paradigma della “guerra globale al terrorismo” – il coordinamento tra 
        Washington-Tel Aviv e Al Qaida era perfetto e perseguiva obiettivi 
        identici. Allo stesso modo nel Libano della più grave emergenza 
        umanitaria ed economica di ogni tempo, gli Usa si opponevano con forza 
        al legittimo, perché imposto dalla Costituzione, governo di unità 
        nazionale richiesto dalle opposizioni patriottiche. Evidentemente ogni 
        passo verso l’unità dei soggetti da assoggettare e obliterare è 
        un’intollerabile rovescio rispetto agli obiettivi strategici come 
        stabiliti dall’israeliano Piano Yinon, di cui parlo più avanti. 
         
          
        Gli Usa, d’altra parte, dovevano qualcosa 
        agli alleati dell’Arabia Saudita, sunniti, sponsor dell’accordo, di 
        fronte alla minaccia scito-iraniana alla stabilità della penisola 
        arabica, minaccia da loro stessi promossa in Iraq con governi a totale 
        controllo scita filo-iraniano . Dovevano qualcosa anche in cambio del 
        sostegno, anche finanziario, che l’Arabia Saudita forniva ai fantocci 
        degli Usa e di Israele a Beirut, in chiave anti-Hezbollah. Per cui il 
        sabotaggio del progetto di unità palestinese doveva mimetizzarsi nelle 
        rinnovate provocazioni alla guerra civile e nel pretestuoso remar contro 
        dello stesso Abu Mazen. Un Abu Mazen che si vedeva pasteggiare, tra 
        sorrisi e pacche sulle spalle, ai ricchi e cerimoniosi banchetti di 
        Olmert, mentre a Gaza e Nablus soldataglie israeliane irrompevano in 
        case da dove era sparito anche l’ultimo piatto di ceci. Ai primi di 
        marzo riprendono gli scontri tra le due fazioni, innescate stavolta da 
        un’imboscata di Fatah contro Wash Kibha, ministro del governo di Ismail 
        Haniyeh, proprio all’indomani della tregua totale proposta a Israele da 
        Hamas. Intanto Israele e la comunità internazionale continuano ad 
        esigere da Hamas il “riconoscimento di Israele”, che pure risulta 
        implicito nell’accettazione da parte della formazione islamica degli 
        accordi fino allora conclusi, e la inderogabile “rinuncia alla 
        violenza”. Rinuncia dall’esito letale, dato che priverebbe i palestinesi 
        dell’unica leva di pressione su Israele rimastagli. A questa pretesa 
        fornisce il suo contributo anche il re giordano, Abdallah, vassallo 
        degli Usa ancor più del padre Hussein, esigendo dal nuovo governo che 
        aderisca rigorosamente alla politiche di resa disegnate dal Quartetto. 
        Una volta di più la signora della diplomazia Usa ripete la giaculatoria 
        dei palestinesi che “devono fare di più”, proprio in concomitanza con la 
        scalata delle incursioni assassine, della crescita delle colonie, di 
        Gerusalemme Est soffocata da nuovi insediamenti, con la più grande di 
        tutte le colonie, della chiusura del popolo palestinese nel campo di 
        concentramento cinto dall’immondo muro che penetra in profondità in 
        quanto resta della Palestina, e del ribadito rifiuto israeliano di 
        riconoscere e tanto meno accettare uno Stato palestinese sovrano. 
         
          
        Un piano per distruggere ogni prospettiva di ritorno all’unità araba
        Ai palestinesi si apre un’estenuante 
        prospettiva di orrori e dispersione. Vi si  potranno opporre, oltre 
        all’indomata volontà di resistenza della maggioranza della popolazione, 
        purtroppo ormai priva del decisivo apporto finanziario e politico 
        dell’Iraq di Saddam Hussein, un per ora non prevedibile mutamento 
        radicale dei rapporti di forza mondiali. Mutamento che potrebbe essere 
        determinato dalla crescente forza dei movimenti e governi 
        antimperialisti in America Latina, nonché dei giganti in crescita cinese 
        e russo e, soprattutto, dalla non improbabile destabilizzazione della 
        compattezza neocon  statunitense attraverso la crescente campagna di 
        smascheramento del teorema dell’11 settembre e del “terrorismo 
        islamico”. In questa prospettiva assume una valenza determinante anche 
        la consapevolezza della strategia di sterminio e frantumazione 
        israelo-statunitense come formulata per il governo nel piano del 1982 di 
        Oded Yinon, consulente del ministero degli esteri israeliano, 
        concretizzato nell’invasione del Libano del 1982 e attualizzato da 
        Olmert con la nuova aggressione al Libano e con la nomina del razzista 
        Avigdor Lieberman, epuratore etnico conclamato, a ministro “per le 
        minacce strategiche”. Il documento, intitolato “Una strategia per 
        Israele negli anni ‘80”, che da allora traccia il cammino della politica 
        israeliana e che riprende lo schema colonialista elaborato 
        dall’establishment sionista a metà degli anni ’50 e pubblicizzato da 
        Kivunim, periodico del 
        Dipartimento per l’Informazione dell’Organizzazione Sionista Mondiale.
         
          
        Si tratta del testo più esplicito, 
        dettagliato e inconfutabile della strategia israeliana per il Medio 
        Oriente. Vi si afferma che per “sopravvivere” Israele deve, 1), 
        diventare la potenza regionale dominante (il che spiega le spinte 
        israeliane a un confronto con il rivale regionale Iran, solo 
        parzialmente condivise dagli Usa), e, 2),  perseguire la frammentazione 
        e dissoluzione degli Stati arabi esistenti in minuscole e inoffensive 
        entità a carattere confessionale ed etnico. La prima invasione del 
        Libano, nel 1978, tentò di realizzare questo piano nel più minuto 
        dettaglio innescando il sanguinoso conflitto tra drusi, cristiani e 
        musulmani. La seconda invasione, nel 1982, più barbarica ed estesa, 
        aveva di mira, oltre al Libano, la Giordania  e la Siria. Infine, 
        l’aggressione dell’estate 2006, con la Giordania ormai in mano a un re 
        che si prestava a sostenere incondizionatamente le mire israeliane, 
        aveva per obiettivo l’ultimo Stato renitente della regione, la Siria, 
        premessa per la totale depalestinizzazione della Palestina. E’ ovvio che 
        i palestinesi, pur non essendo obiettivo unico dei piani sionisti, sono 
        quello prioritario, dato che la loro presenza in quanto popolo nega 
        implicitamente l’essenza dello Stato sionista. Ma risulta evidente che 
        ogni e ciascuno Stato arabo, soprattutto quelli dotati di coesione e 
        storia nazionali, rafforzati nella lotta di liberazione del secolo 
        scorso, costituiscono un bersaglio da colpire prima o poi. Ne conseguiva 
        l’impellente necessità di far fuori per primo l’Iraq, influente polo e 
        punto di riferimento per le sopravvissute istanze nazionali e panarabe, 
        comprese quelle di progresso sociale e laico. Ci si è lavorato, 
        attraverso due guerre, un embargo e un’occupazione genocida, dal 1991 ad 
        oggi.  
          
        Di fronte a questa lucida e determinata 
        strategia israelo-statunitense, secondata dall’equivoca “passività”, 
        quando non complicità, europea e, fino all’avvento di Putin, da una 
        Russia ridotta alla mercè di un’oligarchia controllata dagli Stati 
        Uniti, la risposta araba e palestinese soffre di ambiguità e incoerenza. 
        Non ci sono, tranne che in settori palestinesi, indicazioni che gli 
        strateghi arabi abbiano interiorizzato il piano sionista in tutte le sue 
        ramificazioni. Reagiscono, invece, con incredulità e sgomento ogni volta 
        che una nuova fase del piano viene ad attuazione. Si veda a proposito l’ammutolimento 
        arabo di fronte all’assedio israeliano di Beirut. E’ tanto desolante 
        quanto inevitabile constatare che fino a quando la strategia israeliana 
        per il Medio Oriente (ma analoghe operazioni sioniste sono in corso da 
        decenni anche in altri scacchieri ambiti dall’imperialismo, come 
        l’America Latina, l’Asia e l’Africa) non verrà riconosciuta in pieno e 
        presa sul serio dagli arabi, più dalle masse che dagli attuali regimi 
        vassalli, dato che pur sempre di lotta di classe, nazionale e 
        internazionale, si tratta, ogni futura reazione all’aggressività 
        israeliana ripercorrerà i sentieri del disfattismo del mezzo secolo 
        trascorso. Resta da constatare, a rischio di sentire ripetere le 
        forsennate accuse di antisemitismo seguite alla denuncia dei paralleli 
        tra oppressione nazista e oppressione in Palestina formulate dall’Ucoii 
        (l’associazione islamica in Italia),  come il piano di Oded Yinon, 
        riconfermato recentemente da Ze’ev Schiff, corrispondente militare del 
        giornale Ha’aretz, con la 
        proposta di dividere l’Iraq in staterelli scita, sunnita e curdo, 
        ripercorra quello della Germania di Hitler nei confronti dell’ Europa 
        Orientale. Nel periodo 1939-1941, quegli Stati furono frantumati in 
        entità minori, anche con il concorso dell’Italia mussoliniana che diede 
        il suo contributo alla spartizione della Jugoslavia con  la creazione di 
        uno statarello fascista chiamato “Grande Albania”, precursore di quello 
        poi perseguito dall’alleanza occidentale attraverso le guerre balcaniche 
        degli anni ’90. A prevalere sulla strategia dello sminuzzamento 
        colonialista degli Stati fu allora solo un’alleanza su scala globale, 
        sotto il vessillo della guerra al nazifascismo, ma nei termini effettivi 
        di un conflitto interimperialista. Alleanza globale che oggi si colloca 
        sul lato opposto, riuscendo a trascinarsi dietro la gran parte di un 
        movimento di salvaguardia della pace, della libertà e della giustizia, 
        partiti “comunisti” italiani in testa. Il che ci dice molto sul cammino 
        che abbiamo compiuto dal 25 aprile ad oggi. 
          
        Due Stati per due popoli, conferma di una “purezza etnico-confessionale 
        condivisa da destra a sinistra
        Il progetto coltivato ostinatamente per 
        gran parte delle fasi della spartizione, occupazione, pulizia etnica, 
        dalle forze più avanzate della società palestinese e araba, lo Stato 
        unico, laico e plurinazionale, è stato efficacemente contrastato, non 
        tanto dall’emergere di un’opzione islamica, determinata dal fallimento e 
        dalla decimazione delle dirigenze laiche, quanto da un ben orchestrato 
        concorso di opinioni internazionali, dalla destra alla cosiddetta 
        “estrema sinistra”. Prodi, obbedendo all’ordine di Olmert di proclamare 
        il carattere ebraico dello Stato sionista, vi ha apposto il suggello 
        italiano, meglio di quanto Berlusconi non si sia mai sognato di fare. 
        Ovviamente con piena soddisfazione delle destre postfasciste e 
        fascistizzanti che, con Fini ultrà sionista per eccellenza, individuano 
        correttamente in Israele il modello di organizzazione statale annidato 
        nella propria Weltanschaung 
        e nei propri propositi revanscisti, alla faccia delle ricorrenti 
        rivelazioni sulla natura corrotta della dirigenza israeliana, quasi 
        interamente finita sotto inchiesta per delitti di natura sessuale, 
        finanziaria, economica e contro l’integrità personale. Segno di quanta 
        impunità induca anche a livello individuale l’impunità politica e 
        statale offerta dalla “comunità internazionale” 
          
        La speranza più concreta di pace e 
        giustizia in Medio Oriente, tuttavia, resta affidata, a una Resistenza 
        palestinese e araba che sappia sfuggire alla morsa di governanti 
        collaborazionisti e provocare, d’intesa con forti iniziative del 
        movimento antimperialista mondiale, come nei primi anni della seconda 
        Intifada, il dissesto economico e sociale della società israeliana. Fu 
        negli anni ’70 e ’80  
        Che milioni di persone acclamavano Yasser 
        Arafat, all’Onu e a Venezia, con in una mano il fucile e nell’altra il 
        ramoscello d’ulivo. Fu una generazione di giovani che percorse le strade 
        del mondo al grido di “fe-fe-fedayin!”  
        Fu alla fine di un’Intifada vittoriosa, quella dal 1987 al 1992, che 
        Israele si vide costretta ad accettare i negoziati di Madrid e di Oslo, 
        per quanto infingardi. Fu, poi, nel 2002 
        che Israele, sotto i colpi della 
        Resistenza, conobbe una crisi vicina alla quasi bancarotta del 1952: gli 
        investimenti stranieri erano svaporati, il flusso di emigranti, vitale 
        per contenere l’avanzata demografica araba, si era inaridito, i capitali 
        già affluiti in gran numero si erano bloccati, rivolte, blocchi 
        stradali, scioperi, davano il segno di un disagio di massa determinato 
        dall’aumento delle spese militari e dal taglio di quelle sociali, le 
        condizioni miserrime dell’immigrazione straniera, che aveva sostituito 
        la bandita manodopera palestinese, provocavano turbolenze e 
        insubordinazioni. Israele fu costretto ad invitare centinaia di migliaia 
        di immigrati russi, moltissimi dei quali non ottemperavano neppure al 
        dettame teologico-legale dell’integrità etnico-confessionale. Fu solo a 
        quel punto che Israele si acconciò a tornare a parlare di negoziati, per 
        quanto sempre con il suo retropensiero fisso della soluzione finale per 
        i palestinesi. E fu la Camp David di Barak e Arafat. Vennero altre 
        manovre diversive e di apparente disponibilità, come il celebrato ritiro 
        da Gaza, applaudite da un sistema politico-mediatico o inconsapevole, o 
        succube. Fu durante quella crisi che nella popolazione israeliana 
        ebraica si manifestarono più evidenti e robusti i segni di dissenso 
        verso l’intransigenza razzista del governo. E ripresero coraggio, 
        allora, le voci che, respingendo la scelta, fondata su identità 
        confessionali dichiarate inconciliabili, dei due Stati per due popoli, 
        individuavano come unica soluzione realistica, oltreche democratica e 
        antirazzista, quella dello Stato unitario plurinazionale e 
        pluriconfessionale. Voci poi nuovamente zittite nell’euforia sciovinista 
        e militarista della guerra al Libano. Ci vorrà una presa di coscienza 
        molto più diffusa, soprattutto tra le giovani generazioni, 
        sull’inderogabile necessità di convivenza dei due popoli in un 
        territorio così limitato e sul rispetto delle entità regionali 
        esistenti, perché a Israele non sia riservato un futuro di inesorabile 
        fascistizzazione e di perpetuo e sanguinoso conflitto con il mondo 
        circostante. E occorrerà anche che un’opinione di sinistra, meno 
        subalterna di quella che riconosceva in Sharon “l’uomo di pace”, che si 
        dichiara “equidistante”, che favoleggia di opposti estremismi messi 
        sullo stesso piano, che offusca la differenza tra torto e ragione, tra 
        vittima e carnefice, riprenda il sopravvento e costituisca una sponda 
        per quanto ancora di buono e giusto sopravvive nella società israeliana 
        ed ebraica mondiale. 
          
           
        P.S.
        Nuove mete per il turismo in Israele
        Una società che dovrebbe denunciare e 
        respingere a furor di popolo quel gruppo di avvocati e militanti 
        sionisti israeliani che hanno costituito recentemente “Il centro legale 
        israeliano” (Shurat HaDin) 
        e che offrono al turismo israeliano nuove attrattive, assai 
        significative del clima che si respira in Israele dopo la disfatta in 
        Libano e la rivincita esercitata sui palestinesi. 
        Qualche esempio del pacchetto tutto 
        incluso offerto da Shurat HaDin, 
        senza che nessuna autorità israeliana abbia avuto alcunché da rilevare: 
        “Vivi 
        otto giorni intensi nell’esplorare la lotta di Israele per la sua 
        sopravvivenza - 
        
        Briefing tenuto da agenti del Mossad e da comandanti dello Shin Bet - 
        Visita approfondita alle unità dell’Israeli Air Force che compiono gli 
        assassinii mirati - Dimostrazione dal vivo di incursioni di penetrazione 
        nel territorio arabo - Assisti a un processo a terroristi di Hamas nei 
        tribunali militari,,,  
        Poi, ovviamente, ottimi alberghi, pranzi 
        sociali, crociere al chiaro di luna in Galilea, gite in pullman al 
        fronte libanese. Tutto incluso 1.895 dollari. Neanche tanto per lo 
        spettacolo di un genocidio dal vivo.  
          
          
        
         |