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        RIGURGITI DEL ’68 E ALTRI
          
        
        04 febbraio 2004 
          
          
        
        Tariq Ali  l’ho intervistato per il 
        quotidiano Lotta Continua, di cui ero direttore, agli inizi degli anni’70. 
        L’argomento era la guerra del Vietnam che volgeva alla vittoria dei 
        bassotti contro gli altotti e Tariq sparava tuoni e lampi contro 
        l’imperialismo yankee. Tariq Ali, pachistano più tardi definitosi 
        anglopachistano, a dispetto della zazzerona nero-lucido, dei baffoni 
        spioventi, degli occhi neri e un po’ balconati e della pelle color 
        dattero maturo, studente della London School of Economics, era stato 
        nella Gran Bretagna del ’68 quello che Sofri, Negri e Brandirali erano 
        stati nell’Italia del ’68 e segg., che Rudi Dutschke era stato in 
        Germania e che Dany Cohn-Bendit era stato in Francia. Visto che Dutschke 
        fu ucciso quasi subito, per la gioia dell’editore di estrema destra 
        Springer, tra i sopravvissuti l’anglopachistano è l’unico che milita 
        ancora in una sinistra dichiarantesi tale. Trotzkista, ma comunque 
        sinistra. Dirige addirittura un periodico storico, la 
        New Left Review. 
        
        Se Cohn-Bendit fa del folklore verde, dopo 
        aver assolto al compito principale di abbattere De Gaulle e, dunque, la 
        prospettiva di un’Europa sganciata dalla narcosi-necrosi atlantica e 
        alleata dell’URSS; se Brandirali porta le borse della vecchiaia e della 
        devastazione morale con la stessa disinvoltura con cui  porta quelle del 
        governatore lombardo Formigoni; se Negri fa il 
        maitre à penser delle 
        moltitudini in fuga dall’Impero 
        (ma ha almeno l’intelligenza-decenza di non captare benevolenze dai 
        poteri immerdacchiando Lenin e Marx, come suggerisce invece lo 
        sbracamento “innovativo” di certi vertici rifondaroli più retrò di 
        Bernstein); se Sofri acquista chiavi per le porte del carcere di Pisa 
        vendendosi anima e culo e mettendoci del suo nello sterminio di slavi, 
        iracheni, palestinesi, a memoria e scorno di alcune decine di compagni 
        da lui guidati e caduti nella difesa di qualche angolo di piazza, di un 
        lavoro meno schiavista, di una speranza di rivoluzione; se questo 
        periodo sta diventando troppo lungo e indigeribile, ebbene Tariq Ali lo 
        inseriamo subito nella formazione. 
        
          
        
        L’eminente anglopachistano ha presentato 
        l’altra sera a una fitta folla romana di naviganti dell’arcipelago 
        antagonista-revisionista-innovatore-disobbediente-gruppettaro-canescioltista-governista 
        il suo nuovo libretto Bush in 
        Babilonia. Un lavoro che , con tempistica mercantile, si 
        aggiunge ai tanti scaturiti come funghi dopo la pioggia bombarola dei 
        civilizzatori anglo-americano-satellitari e che, tranne un po’ di utile 
        storia del paese, nulla aggiunge di nuovo o demistificante alle fandonie 
        che ci hanno intossicato dalla biografia di Saddam dello Zero-Zero-Zero 
        Magdi Allam in poi. Alla presentazione, riferita l’indomani solo dal 
        come sempre generoso e versatile 
        Liberazione, sedicente “giornale comunista”, partecipavano 
        anche Giulietto Chiesa e Luciana Castellina, subissati dalla pomposa 
        spocchia dell’anglopachistano, ma a loro volta in grado di tirargli giù 
        un po’ di brache senza che l’interessato, perso nell’oceano della sua 
        autoconsiderazione, se ne avvedesse. 
        
          
        
        Certo, Tariq Ali è molto piaciuto a molti 
        (ma succede perfino a Rossana Rossanda con la fetecchia Sofri). E perché 
        no, a prima vista ribadiva cose indubitabili: la lunga tradizione di 
        lotta anticolonialista del popolo iracheno, base morale, politica e 
        psicologica dell’attuale, formidabile resistenza; i crimini di un 
        genocidio israeliano del popolo palestinese che si dipanano da oltre 
        mezzo secolo in qua e, “visto che l’occupazione è brutta, la resistenza 
        non può essere bella” (e qui, senza ironia, i combattenti suicidi 
        palestinesi gli rendono grazie), la resistenza che non deve essere 
        confusa  con il terrorismo, il ricatto morale e l’intimidazione 
        intellettuale praticata dai mille gangli del sionismo con l’accusa di 
        “antisemitismo” che, chissà perché (domanda retorica, direi), viene 
        pompata e rilanciata soprattutto da certa sinistra (Liberazione, 
        ti fischiano le orecchie?). 
        
          
        
        Tutto bello, tutto gradito, tutti a 
        sorridere compiaciuti. Preparato così il terreno e spogliato il pubblico 
        di ogni diffidenza critica, Tariq Ali ha seminato. I solchi glie li ho 
        tracciati io con un paio di domande che si riferivano a un argomento da 
        lui sollevato e a un altro da lui trascurato. Nel corso della 
        presentazione, aveva tracciato il solito, liturgico quadretto di Saddam 
        Hussein: sterminatore di curdi e comunisti, alleato della CIA che gli 
        forniva l’elenco dei comunisti da liquidare (sai come avrebbe fatto 
        senza la CIA a rovistare nei bloc notes dei cittadini iracheni!), pedina 
        degli Stati Uniti  nel contenimento della minaccia islamica di Khomeini, 
        armato, finanziato dal Pentagono, baciato in bocca da Rumsfeld (allora 
        inviato di Reagan), oltrechè vampiro del proprio popolo e socio 
        dell’attentatore alle Torri Gemelle e all’impero mondiale USA, Osama Bin 
        Laden. E a proposito di quelle Torri, arco di trionfo, per quanto 
        cimiteriale, per il transito delle truppe imperiali inviate a squartare 
        paesi, sfoltire l’umanità e garantire risorse all’elite statunitense, 
        nulla aveva aggiunto. 
        
          
        
        La prima domanda era se non gli fosse 
        barluccicato qualche dubbio su “Saddam, uomo degli USA” al ricordo che 
        Aref, dittatore iracheno messo su dalla CIA nel 1963, lo aveva buttato 
        in galera insieme ai comunisti e baathisti che avevano cacciato la 
        monarchia e gli inglesi nel 1958; che, alla presa del potere nel 1968 di 
        baathisti e comunisti uniti, Saddam aveva collocato l’Iraq solidamente 
        nel campo non allineato e socialista, concludendo con l’URSS un trattato 
        di amicizia e mutua difesa, rinnegato da Mosca solo nel 1980, quando 
        Brezhnev decise di schierarsi con l’Iran integralista; che, nel 1972, 
        aveva nazionalizzato il petrolio e cacciato le Sette Sorelle, massimo 
        crimine in assoluto dal punto di vista imperialista; che poi, per la 
        prima volta nella storia di quel popolo, aveva concesso ai curdi 
        l’autonomia e l’autogoverno, sottraendo agli USA la vecchia arma di 
        destabilizzazione  del separatismo curdo, cosa che Kissinger trovò 
        sommamente disidicevole, tanto che riversò montagne di dollari e di 
        oppio sui capitribù feudali Balzani e Talabani purchè riprendessero la 
        rivolta (spenta con poche scaramucce dall’esercito iracheno, e mitizzata 
        dai media occidentali con il “massacro di un milione di curdi”);  che, 
        dopo la pace di Camp David tra Sadat e Begin, con cui la questione 
        palestinese veniva archiviata e Israele riconosciuto dominus del Medio 
        Oriente, Saddam riunì a Bagdad 17 paesi arabi su 22 e costituì il 
        “Fronte del Rifiuto” che riaprì quella questione, isolò Sadat, e offrì 
        un retroterra politico e finanziario per la rinascita della lotta 
        palestinese, prima in Libano, contro i fascisti filoisraeliani della 
        Falange maronita, e poi in Palestina con le due Intifade;  che l’Iran di 
        Khomeini, armato da Israele (il ricavato venne dagli USA utilizzato per 
        distruggere il Nicaragua dei sandinisti tramite lo scherzetto “Iran-Contras”), 
        aggredì l’Iraq (e non viceversa) con la pretesa di spostare i confini 
        concordati nel 1975 al di là dello Shatt el Arab, con la minaccia di 
        chiudere all’Iraq lo Stretto di Hormuz, cordone ombelicale per gli 
        scambi iracheni e, dunque, cappio mortale, e con continue provocazioni 
        armate sul confine con il Curdistan; che Israele e gli USA promossero 
        quel conflitto per fare in modo, nelle parole di Kissinger, “che le due 
        potenze regionali ostili a Israele si dissanguassero tra di loro”; che 
        Israele, alter ego degli USA nella regione, bombardò nel 1983 l’unica 
        centrale nucleare irachena; che chiunque visitasse l’Iraq negli anni 
        ’70, ’80, ’90, poteva facilmente incappare in uno dei mille convegni, 
        manifestazioni, seminari che, a Bagdad, raccoglievano le forze popolari 
        e socialista del Terzo Mondo in funzione antimperialista; che, nella 
        prima come nella seconda Guerra del Golfo, non un’immagine televisiva, 
        non un occhio di osservatore hanno colto anche una sola arma 
        statunitense, ma solo antiquati armamenti sovietici o europei, a 
        dispetto di quanto si afferma circa il “Saddam armato dagli USA”;  che 
        il Kuwait, 19. provincia irachena, sottratta all’Iraq dai britannici nel 
        1926 per togliere a un grande paese ribelle, che Churchill bombardava 
        con i gas, lo sbocco al mare e un bel po’ di petrolio, fu istigato dagli 
        USA, dopo la guerra Iraq-Iran, ad abbassare il prezzo del petrolio in 
        modo da ritardare il recupero economico iracheno e a rubare petrolio dal 
        giacimento iracheno Rummaneh, perforando trasversalmente sotto il 
        confine tra i due paesi; che da almeno vent’anni, dal Marocco al Golfo 
        arabo-persico, le masse protestano contro l’imperialismo e contro i 
        governi vassalli dei loro paesi nel nome e con i ritratti di Saddam 
        Hussein, visto da 200 milioni come protagonista della rinascita araba, 
        della resistenza palestinese, della lotta antimperialista. 
        
          
        
        A questa domanda, Tariq Ali risponde dalle 
        vertiginose altezze della sua superiore conoscenza, ribadendo l’assioma 
        “Saddam era l’alleato più stretto degli americani”. Punto e basta. Nella 
        torre d’avorio della sua apodittica sicumera, con gli occhi sideralmente 
        lontani dai propri piedi, l’anglopachistano inciampa vistosamente in una 
        contraddizione che, da sola, basta a porre fine alla questione. Saddam 
        sarebbe sì lo sporco e puttanesco doppiogiochista che, al di là delle 
        declamazione nazionaliste e di un modello sociale demagogico e populista 
        che in vent’anni ha dato l’alfabeto, la salute, l’istruzione, la casa, 
        la donna emancipata, la creatività artistica, il lavoro a tutti i 22 
        milioni di iracheni, se la fa sotto sotto con CIA e imperialismo (con 
        Israele non ha avuto il coraggio di dirlo). Però poi c’è la grandiosa 
        resistenza irachena contro l’occupazione di angloamericani e ascari da 
        quattro soldi d’elemosina. E cos’è questa resistenza, sostenuta da tutto 
        un popolo, se non il risultato di una maturità politica e di una 
        coscienza antimperialista che le generazioni oggi in lotta hanno 
        acquisito grazie all’esistenza di una cultura nazionale, sociale, 
        antimperialista, diffusa da un partito con sei milioni di iscritti e un 
        milione di militanti in quarant’anni di resistenza al colonialismo di 
        ritorno e di costruzione di una nazione socialmente progredita. E a chi 
        va attribuito tale risultato? Gli stereotipi dell’oratore si arenano 
        qui. 
        
          
        
        La seconda  domanda sollevava la 
        drammatica, direi irresponsabile latitanza dell’informazione e della 
        politica di sinistra, Tariq Ali compreso, rispetto al lavoro di 
        smascheramento del paradigma guerra-terrorismo (in 
        Liberazione la famigerata 
        “spirale guerra-terrorismo”, inventata da Bertinotti e papagallata come 
        di consueto dal corteo di corifei), con particolare riferimento alla 
        megatruffa dell’11 settembre, condotto dalla controinformazione 
        internazionale e specialmente statunitense. Come può, ho chiesto, un 
        esponente prestigioso della sinistra antimperialista trascurare il dato, 
        ormai convalidato da innumerevoli ricerche, documenti, testimonianze, 
        falle nelle versioni ufficiali, sabotaggi delle inchieste da parte 
        dell’amministrazione USA, di uno spaventoso attentato attuato, sulla 
        scia di numerosi precedenti storici analoghi, dal potere statunitense 
        allo scopo di ottenere quell’ “evento traumatico tipo Pearl Harbour” 
        auspicato da Condoleeza Rice e da tutto il gruppo neonazista del PNAC 
        (Project for a New American Century) che avrebbe consentito al mostro 
        imperialista di schiacciare l’antagonismo sociale interno e imporre al 
        mondo un Quarto Reich millenario USA (almeno fino al 2050 quando, 
        secondo gli studi più seri, il pianeta, con questo modello di 
        “sviluppo”, sarà arrivato alla frutta). Come può chiudere gli occhi 
        davanti alla siderale bufola di un potere che potenzia il tradizionale e 
        espertissimo terrorismo CIA e Mossad,  recluta tra poveracci 
        iperislamisti lobotomizzati la sua manodopera (proprio come i servizi 
        segreti italiani attingevano al neofascismo), bombarda i suoi e altri 
        cittadini per ottenere il via libera popolare alla polverizzazione 
        dell’Afghanistan, via d’accesso al Caucaso dei combustibili fossili, 
        alla Russia e alla Cina, e dell’Iraq, massima riserva petrolifera del 
        mondo e  garanzia che la borghesia statunitense potrà, almeno fino al 
        2050, vivere come se avesse a disposizione non uno, ma cinque pianeti 
        Terra. 
        
          
        
        L’occhio di Tariq Ali divenne più cupo, ma 
        nulla turbò la sua 
        raffinata nonchalance da 
        gran maestro, impermeabile alle miserie del complottismo dietrologo di 
        chi si porta sul gobbo il fuorviante incubo di millenni di cospirazioni 
        e inganni cristiani, massonici, mafiosi, oligarchici e cade nel tranello 
        vichiano dei corsi e ricorsi. Con un gesto della mano, sollecitata da 
        sussiegoso fastidio, allontanò l’assurda illazione: “Li ho letto 
        anch’io, i documenti, i libri, le controrelazioni…” Con il cerchio della 
        mano che imprigionava inesorabilmente l’assurda ipotesi, finisce di 
        botto anche la frase. Tutto qui. Poi, però, solleva l’angolo sinistro 
        della bocca in un sorriso sardonico e riprende: “Sono stato tra i miei 
        fratelli  e ci siamo chiesti se noi musulmani non fossimo abbastanza 
        intelligenti per fare una cosa come quella dell’11 settembre. Ebbene – 
        si alza anche l’altro angolo della bocca e la voce più forte sottolinea 
        l’attestato con sconcertante orgoglio -  vi garantisco che siamo 
        abbastanza intelligenti…” Tariq Ali paracaduta l’occhio nero, ora 
        luminoso, sulla vasta platea a cercare il trionfo sul miserabile San 
        Tommaso. Lo ottiene. La platea applaude, come sollevata…  
        
          
        
        CONCLUSIONE
        
        E’ una vita che constato la diabolica 
        abilità del nemico nell’occupare le due sponde del fiume (proprio come 
        voleva fare Khomeini con lo Shatt el Arab), i due aspetti dello scontro, 
        i due fronti del conflitto. Tipo gestire l’FBI da un lato e Al Qaida 
        dall’altro, o, con il MPRI (Military 
        Professional Resources Inc., esercito privato al soldo del 
        Pentagono), l’addestramento e la guerra dell’esercito regolare macedone 
        di qua, e l’addestramento e la guerriglia dei secessionisti albanesi di 
        là. O ancora i fascisti cronici e strategici: gagliardetti, rune e mazze 
        tra i coatti dell’alienazione suburbana, oggi cari ai filosofi e 
        gruppuscoli del “superamento della dicotomia destra-sinistra” (Preve, 
        Campo Antimperialista), a rappresentare nostalgia e folclore, e Fini, D’Alema, 
        Berlusconi alla corte di Sharon, a incorporare il fascismo postmoderno 
        dell’”Unica democrazia del Medio oriente” e dell’ 
        Enduring Freedom 
        statunitense. 
        
        Non importa, in questo contesto, se Tariq 
        Ali sia un utile idiota, un presuntuoso stordito dalla vanità, o un 
        amico del giaguaro. Certo è che la sua esistenza, in termini di 
        costi-benefici, non può che essere gradita a chi si propone di 
        turlupinare e divorare il mondo. Facciamo un’ipotesi, ovviamente 
        onirica. Chissà se un  bel giorno, all’apice della carriera di apostolo 
        della sinistra radicale, l’anglopachistano non sia stato convocato in 
        qualche ufficio dagli aromi antichi e dalla scenografia solenne. Chissà 
        che non gli abbiano detto: “Tariq carissimo, sono vent’anni che rompi i 
        coglioni tra Londra e Islamabad. Hai presente quei 15 microbiologi 
        impegnati nella ricerca di retrovirus e coronavirus, tutti morti 
        ammazzati o incidentati sul finire del 2001, tutti a conoscenza dei 
        nostri giochini con l’Aids, l’antrace, la SARS, e  tanti altri prodigi 
        biologici sfoldimondo? Hai presente John Lennon? Ti ricordi del compagno 
        Dutschke? E d’altra parte, hai visto la carriera di Cohn Bendit o di 
        certi tuoi compagni italiani, o dei trotzkisti statunitensi contestatori 
        nel ’68 e neo-cons nazisti nel 2000? Beh, pensaci. Pensaci bene. E poi 
        pensa alla nostra proposta. Continua a blaterare le tue stronzate sui 
        poveri palestinesi, sui comprensibili kamikaze (tanto il terrore 
        dell’accusa di antisemitismo, diffuso dai nostri operativi, ti rende del 
        tutto inoffensivo), continua ad anatemizzare l’imperialismo 
        statunitense, parla malissimo di Berlusconi (tanto quello ormai 
        l’abbiamo spremuto a fondo) e di Blair, denuncia le bugie sulle ADM 
        irachene(tanto ormai le abbiamo ammesse tutti), fatti vindice dei 
        musulmani (tanto ormai abbiamo le leggi che ci permettono di sbatterli 
        dentro a vita senza accusa e di condannarli senza prove). Fa e di quello 
        che ti pare del tuo logoro armamentario di sinistra. Una sola cosa ti 
        chiediamo. E ti costa poco, dato che avrai accanto a te il 90% della 
        sinistra occidentale (quella del Sud del mondo chi l’ascolta?). Sostieni 
        sempre e ovunque la tesi dell’11 settembre fatto da Al Qaida e dal 
        fanatismo islamico, avvalla la “spirale guerra-terrorismo”, parla male 
        di Saddam Hussein e, se vuoi essere gentile, anche di Slobodan Milosevic 
        e Fidel Castro. Tanto sei trotzkista e ti costa poco. Questa è la nostra 
        proposta, ti sta bene?” 
        
          
        
        E’ naturalmente dietrologia pura che a 
        Tariq qualcuno abbia sussurrato questo accordo. Di conseguenza non si 
        può avere la minima idea di un’eventuale risposta. Ci dobbiamo attenere 
        a quanto ci ha detto presentando “Bush in Babilonia”. 
        
          
        
        Aggiungo che è tornato a onore della 
        nostra italica identità che alla celebrazione di Tariq Ali fossero 
        presenti Giulietto Chiesa e Luciana Castellina. Professionalità dell’uno 
        e coerenza politica dell’altra non mentono. Il primo ha amabilmente 
        sabotato le certezze terroristico-saddamiane del Nostro, offrendo un 
        quadro dell’assassinio della realtà operato dai mezzi della coppia 
        informazione-potere e, occhieggiando sornione verso i veri responsabili 
        dell’11/9, ha detto di attendersi qualche megabotto terroristico alla 
        luce delle difficoltà elettorali che Bush va incontrando dopo il  tonfo 
        delle ADM e le spaventose botte rifilategli dagli iracheni. Tariq Ali 
        faceva finta di niente (o invocava Osama?).  
        
        Castellina ha deviato verso il virulento 
        fracasso non violento innescato da Bertinotti e subito sussunto da 
        armate di sicofanti e benpensanti, ansiosi sia di mettere il culo al 
        caldo, dopo i gelidi rigori vissuti dai nonni e padri partigiani, sia di 
        sfuggire alla micidiale accusa di contiguità col terrorismo provocata da 
        indulgenze per i teppisti che assaltarono la bastiglia, o il Palazzo 
        d’Inverno, o il palazzo di Re Faruk d’Egitto, o quello dei Feisal II 
        d’Iraq, o quello dello Shah di Persia, o i bar dei 
        pieds noires ad Algeri, o le 
        piazze presidiate dalla Celere di Tambroni,  o le camere di tortura dei 
        coloni in Cisgiordania; sia di rassicurare quelli con la bomba nucleare, 
        i gas tossici e i microbi delle pandemie, che mai più avrebbero alzato 
        un dito, né tanto meno inserito il classico granello di sabbia iracheno, 
        o colombiano, o palestinese, o venezuelano, a bloccare l’invincibile (a 
        priori e per definizione!) macchina tecnologia del sacrosanto monopolio 
        della violenza. Al più un po’ di disobbedienza discola, ma sempre nella 
        prospettiva di un posticino a tavola e uno strapuntino al governo. 
        Insomma, da tutti gli asili, i nosocomi, le case di riposo, i parchi 
        giochi, i lupanari, la case da gioco, gli angoli dietro la lavagna, un 
        solo grido si solleva verso i potenti della Terra, della Confindustria, 
        dei Carabinieri e dell’Ulivo: “Non lo faccio più!” 
        
          
        
        Vanno segnalati a questo proposito, nel 
        dibattito su Liberazione 
         e Manifesto, 
        
        alcune perle di convincente portata 
        ideologica e politica: i cioccolatini Perugina con bigliettino amoroso e 
        contenuto al cianuro di Niki Vendola; l’abilità archivistica di Franco 
        Giordano nell’enumerare tutti, ma proprio tutti, i calembour, modi di 
        dire, frasine ad effetto, del Movimento (un movimento ovviamente 
        “duraturo, permanente, globale”), evitando accuratamente di dire 
        qualcosa di suo; il raccapricciantemente umoristico contributo di Ramon 
        Mantovani (si mormora che sia un deputato del PRC), sopravvissuto a una 
        dura battaglia con grammatica, sintassi, stile, e, come del resto ogni 
        manifestazione del deus ex machina 
        del povero Ocalan, del tutto irrilevante per il dibattito, ma utile 
        pretesto per l’espressione di psicotiche frustrazioni  di camerata; e il 
        paginone addirittura di controcopertina concesso dal “nuovo” 
        Manifesto a tal Romano 
        Màdera. Ne cito solo una “sezione aurea”: ”In realtà bisogna abbandonare 
        radicalmente l’idea di fare, anche simbolicamente, la guerra alla 
        guerra. Si tratta di superare la politica che è “contro”; anche Bush 
        siamo noi (sic!), ricordava già durante la prima guerra del Golfo, a 
        proposito di Bush padre, quel geniale (sic!) maestro buddista che è 
        Thich Nhat Hahn… Il suo superamento significa nientemeno che una 
        profondissima trasformazione del sentire e del pensare degli uomini, 
        secondo lo stesso spirito dei grandi profeti dell’universalismo 
        pacifico, da Buddha a Gesù di Nazareth…” Ma vuoi mettere Thich Nhat Hahn 
        con quei primitivi di Marx e Lenin! Ma vuoi mettere quella polverosa 
        soffitta di una storia di 6000 anni con la radiosa frescura della 
        New Age! 
        
        L’avessero capito i palestinesi, prima di 
        essere inceneriti da un Apache! Si fossero reso conto che Sharon “è 
        noi”, anzi, è loro! Avessero perseguito la “profondissima trasformazione 
        del pensare e del sentire”, secondo Buddha e Gesù di Nazareth (ma  non è 
        quello nel cui nome si è decimata l’umanità altra, non fedele, non 
        obbediente, eretica o addirittura stregonesca?)! Fuor di ogni dubbio gli 
        statisti israeliani, da Ben Gurion a Sharon, sarebbero rimasti folgorati 
        sulla via di Nablus e avrebbero portato rose e insalatina al posto dei 
        missili Gerico! E quanto alla Palestina, avrebbero bussato e chiesto: 
        Scusate,  possiamo accomodarci in una stanzetta della vostra casa? Che 
        sciocchi, questi palestinesi!  
        
          
        
        Non ci resta che scegliere: Tariq Ali, o 
        Romano Màdera? Insoddisfatti? Vi potete sempre fare una risata con l’On. 
        Ramon Mantovani. E’ quel che passa il convento. 
        
        O non ci resta che piangere?  
        
          
          
        
        
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