Le idee di Ernesto Che Guevara che disse sentirsi 
          profondamente americanista e di cui il carisma rimane vivo, perdurano 
          nel tempo dovuto alla sua vigenza in questioni d’indole politica, 
          economica, sociale ed etico-morali, come si fossero fatte per i nostri 
          giorni.
          Uomo di azione e di pensiero profondo, percorse presto la strada da 
          Rosario, terra argentina, dove vide la luce il 14 giugno del 1828, 
          fino a tornare al seno dell’America, nell’ottobre del 1967, in quella 
          scuola alla Higuera, fermo nelle proprie convinzioni malgrado i suoi 
          assassini.
          A volte se lo si vede come teorico soltanto della guerra di 
          guerriglia, della quale fu indubitabilmente un maestro, e si dimentica 
          la sua peculiare visione della necessità di trasformare l’economia, la 
          società e l’uomo.
          Il 29 settembre del 1963 diceva nella chiusura del Primo Incontro 
          Internazionale di professori e studenti d’Architettura all’Avana: “La 
          tecnica è un arma, e chi sente che il mondo non è tutto  perfetto 
          come dovrebbe essere, deve lottare perché l’arma della tecnica sia 
          messa al servizio della società e prima, perciò, riscattare la 
          società, in modo che tutta la tecnica serva alla maggiore quantità 
          possibile di esseri umani”.
          Che Guevara abbordò, specialmente, la situazione dello sviluppo di 
          Cuba e dei paesi del Terzo Mondo, nel Seminario Economico Afroasiatico, 
          ad Argel, nel 1965 e considerò “la seconda tappa della lotta, che 
          acquisisce caratteristiche, se è possibile, più difficili che 
          l’anteriore”. Questo discorso è considerato dagli esperti parte del 
          suo testamento intellettuale.
          Anticipandosi ai 40 anni seguenti, avvertiva, allora, come il 
          neocolonialismo appare prima in Iberoamerica, in tutto un continente, 
          e “comincia oggi a farsi notare con intensità crescente nell’Africa e 
          nell’Asia”, alcune volte con la forza bruta –Congo- e altre 
          appoggiandosi in elementi interni.
          Ricordava come i capitali monopolisti si sono adoperati del mondo e 
          mantennero nella povertà alla maggior parte dell’umanità, per cui, si 
          apriva una nuova tappa con il staccarsi del sistema coloniale 
          nell’Africa e nell’Asia, vittorie parziali –appuntò- contro il nemico 
          fondamentale.
          Dobbiamo convenire, affermava, che lo strappo succede quando il 
          dominio imperialista finisce di esercitarsi su d’un popolo e non per 
          la proclamazione dell’indipendenza d’un paese o la vittoria delle armi 
          in una rivoluzione.
          Necessitiamo, puntualizzò, vincere il cammino dello sviluppo con la 
          tecnica più avanzata, prenderla dove sia, fare un grande salto tecnico 
          per diminuire la differenza con il mondo sviluppato, spendere una 
          buona parte del guadagno nazionale nell’educazione e considerare 
          all’agricoltura un pilastro fondamentale in questo sviluppo, 
          attraverso cambiamenti della struttura agricola.
          La freschezza e precisione dei suoi criteri ancora guadagnano alle 
          masse di tutte le parti. Esistono frasi lapidarie che non ammettono 
          repliche, esempi ci sono molti, ricordiamo queste:
          “America è oggi un vulcano, non si trova in eruzione, però è commossa 
          da grossi rumori sotterranei che annunciano il suo avvenire” 
          (ottobre-novembre del 1962).
          
          “Per alzare il livello di vita dei popoli sottosviluppati, si deve 
          lottare, contro l’imperialismo”,  esprimeva nel 1965 ad Alghero e in 
          una conferenza fatta vedere alla televisione a Punta del Este, il 23 
          agosto del 1961: “Gli Stati Uniti intentano adesso perfezionare il 
          sistema inglese e fare di tutta Latinoamerica una efficace produttrice 
          di materie prime per gli Stati Uniti”.
          Ebbe coscienza di molte questioni essenziali che espose presto però 
          con radici –altri coltivavano le loro piante- perché forse, come 
          accade, non avrebbe visto i frutti.
          “Sono un convinto di che ho una missione che compiere nel mondo, e di 
          che in funzione di quella missione devo sacrificare la casa, i piaceri 
          tutti della vita diaria di qualsiasi soggetto, la mia sicurezza 
          personale e magari anche serva sacrificare la mia vita” (6 agosto del 
          1961, conferenza stampa a Montevideo).
          In occasione di quella stessa visita all’Uruguay, affrontò l’8 agosto 
          del 1961, faccia a faccia, le aggressioni contro Cuba all’intervenire 
          nella quinta sessione plenaria del Consiglio Interamericano Economico 
          e Sociale, celebrata a Punta del Este. Mattone a mattone smontò 
          l’edificio di bugie con la solidità d’un vero politico ed economista.
          Il Che mise le mani sul processo d’industrializzazione a Cuba come 
          Ministro del settore e conduttore d’un pensiero chiaro in quell’ordine, 
          la cui essenza formulò il 18 del proprio mese, in un  incontro 
          con gli universitari uruguaiani:
          “Nell’ordine di prelazione, prima ce lo sviluppo e che tutta conquista 
          di tipo sociale che non si basi in un aumento della produzione, più 
          tardi che mai fallisce e affonda”.
          Al suo giudizio, lo sviluppo economico in se, non è un fine, è niente 
          di più che il mezzo per raggiungere il fine, che è la dignità 
          dell’uomo e non si possono fare le case senza costruire le fabbriche 
          di cemento.
          Fu un predicatore di buoni abitudini del lavoro quotidiano, 
          dell’eroismo di tutti i giorni (“non si può costruire un paese in 
          un’opera di laboratorio”) e vide nell’organizzazione qualcosa 
          d’immanente a uno stato moderno.
          Cronista della guerra di liberazione cubana, raccontò con elegante 
          stile i momenti principali di quella tappa. Menzione a parte meritano 
          i suoi diari di guerra, tanto della tappa africana come quelli della 
          guerriglia boliviana.
          Lasciò ugualmente importanti discorsi, lettere, conferenze e altri 
          scritti, fra loro: Notas  para el estudio de la Ideología de la 
          Revolución Cubana, Guerra de guerrillas. Un método; Cuba, ¿excepción 
          histórica o vanguardia en la lucha anticolonialista?; Táctica y 
          estrategia de la Revolución Latinoamericana e Mensaje a la 
          Tricontinental.
          El Socialismo y el hombre en Cuba, scritto per il settimanale Marcha, 
          dell’Uruguay, il 12 marzo del 1965, costituisce uno dei suoi lavori 
          più interessanti di tipo teorico, nel quale conferisce alla gioventù 
          la speranza futura.
          
          *L’autrice, giornalista e 
          storiografa, è collaboratrice di PRENSA LATINA