100$ PER UN AMORE


1.VARADERO
 

 

 

Rayko si notava subito.

Il suo fisico, che pareva intagliato nell'ebano più duro, si stagliava sulla spiaggia di polvere bianca di Varadero. I suoi vent'anni, passati alla ricerca di una sopravvivenza quotidiana, brillavano dagli occhi neri e lucenti, incorniciati da ciglia lunghissime, quasi femminee.

Era un jinetero. Vale a dire uno dei tanti ragazzi e ragazze, per di più emigrati da sconosciuti e miserabili paesini di una Cuba ormai morta, per cercare fortuna e dollari in una delle località turistiche dell'isola.

Sempre a caccia dello Yuma da servire e di cui approfittare, per rimediare qualche oggetto regalato o dollari che si sarebbero presto trasformati in puro divertimento, rappresentato da una serata in discoteca oppure nell'acquisto di un paio di jeans italiani.

Quando osservavo tutto questo, ancora non mi ero reso conto di molte verità nascoste e seppellite agli occhi dei turisti, ingannati dalla bellezza delle spiagge tropicali e dal ritmo delle orchestrine del son cubano.

Ritornando a qualche giorno prima, mi trovavo stupito e stordito dopo circa 10 ore di un comodo volo charter che mi aveva strappato da un’efficiente e fredda Milano per catapultarmi in un’allegra ed assolata Varadero. Dopo un’estenuante coda, provocata da un lunghissimo controllo alla dogana cubana, ero stato gentilmente accolto dall’hostess dell'agenzia ricettivista che mi aveva fatto accomodare su di un minibus dai colori stinti, insieme ad altri turisti dagli occhi arrossati dalla stanchezza, per condurci negli alberghi riservati.

L'impatto con la dolcezza che provai fu immediato. Oltre ad un gigantesco cartellone di "benvenuto" e qualche turistaxi, non c'era null'altro che un anonimo paesaggio. Qualche automobile scassatissima risalente agli anni '40/'50, frutto dell'allora espropriazione rivoluzionaria, veniva lentamente sorpassata dal nostro pulmino. Ma fino ad arrivare all'inizio della penisola di Varadero, dov'è ubicata la Marina, la terra bruciata dal sole, non aveva conosciuto ancora nessun tipo di sfruttamento edilizio.

I giorni che seguirono, esaltarono in me, turista single, la realtà che volevo vedere e che volevo cercare di capire. Una rivoluzione socialista fallita? Un sogno realizzato a prezzo d’inenarrabili sacrifici? L'orgoglio caraibico ma tipicamente cubano, dal sapore d’indipendenza? Proprio non sapevo cosa rispondermi. Cercavo di sfuggire dalla realtà stereotipata rappresentata dalle comodità dell'albergo dove soggiornavo, per trovare rifugio nella consapevolezza. Così, svogliatamente partecipavo sempre di meno e con meno voglia ai previsti intrattenimenti dello staff d’animazione, per parlare sempre di più con ragazze e ragazzi del luogo che, dal canto loro, erano ben felici della mia voglia di socializzare.

Alla fine della prima settimana avevo, oltre il colore rosso gambero ed un male cane provocato dalle scottature, anche la presunzione di aver capito tutto o quasi della "mia" isola. Rayko, mi si era avvicinato il secondo giorno "Amigo! Italiano?" aveva quasi gridato mostrandomi denti bianchissimi. Sulle prime non lo avevo neanche considerato, facendogli un cenno con la testa ed un sorrisino idiota. Ma dopo cinque minuti tornò all'attacco "Oyee, amigo...Italiano?"

Faticosamente annaspai sul lettino prendisole fino a raggiungere una posizione di precario equilibrio e mi asciugai il sudore che colava a rivoli copiosi.

"Si, sono italiano. Tu me intiendi?". Mai altra frase fu più idiota di questa. Venne verso di me, superando una invisibile linea di confine che divideva noi turisti, da loro jineteri, appollaiati sulla riva, in attesa.

"Claro che si!" rispose "Ho tanti amici in Italia. Mi chiamo Rayko, e tu?".

Fu l'inizio di una conoscenza che giorno dopo giorno mi faceva sentire sempre più cubano, al costo di qualche dollaro, magliette e saponi.

Rayko iniziò a raccontarmi di se. Viveva già da tre anni in un paesetto, ma più giusto sarebbe considerarlo un agglomerato di misere abitazioni, a circa una ventina di chilometri da Varadero. Nei dintorni di Cardenàs, era ospitato da una signora che, per la cifra di sessanta dollari al mese, forniva a lui e ad altri ragazzi, un posto dove dormire e in cui domiciliarsi. Veniva da Las Tunas, nel centro dell'isola. Seppi in seguito che era tra le più povere province di Cuba, che viveva esclusivamente di agricoltura. In questo ed in altri paesi non frequentati dal turismo occidentale, la popolazione sopravviveva grazie alla "libreta" rilasciata ad ogni capofamiglia, dallo Stato e con il quale si aveva diritto ad acquistare a prezzi politici, generi alimentari e d'uso quotidiano, razionati in base al numero e all'età dei componenti del nucleo famigliare. Il problema, a parte l'esiguità delle razioni cui si aveva diritto, era quello di trovare qualcosa da comprare negli ormai vuoti negozi cubani.

Lo stipendio mensile si aggirava all'equivalente di sette/dieci dollari, pagati in moneta nazionale inconvertibile e svalutabile. Scoprii anche che la gente dell'Oriente cubano -ma la miseria di aggirava ormai in tutta l'isola- mangiava forse solo una volta il  giorno e sempre il solito piatto nazionale, il congrì: riso e fagioli neri a volte con l'aggiunta di una banana tagliata e mischiata nel mezzo e, solo in situazioni eccezionali, arricchita con carne di maiale o pollo. Il burro, era riciclato per diverse cotture, così come tutto quanto il resto. Non si buttava mai nulla. Ed ora, vivendo la Patria acquisita dell'eroico e mitizzato "Che", mi ponevo il quesito a proposito dell'uomo nuovo socialista. Esisteva veramente? E tutti i cubani che incontravo e che mi proponevano di tutto, erano i cloni del lìder maximo?

Il sole filtrava attraverso la palma che ombreggiava il tratto d’arenile dove ero mollemente stravaccato. Walkman, occhiali da sole, asciugamano di spugna a tinte sgargianti, Marlboro, catena d'oro con corallo rosso al collo: il classico turista. Così apparivo e così ero davvero. Le affascinanti ragazze dai costumi quasi fosforescenti e dalle immancabili treccine posticce mi ammiccavano da pochi metri, ridendo e parlando ad alta voce tra loro. Forse si stavano dividendo la ipotetica posta rappresentata da quello che io potevo offrire.

Rayko venne da me. "Italiano! Quiere una chica? No problem! Penso io alla figa, alla casa, al carro..."

"Come? Quale chica e quale casa?" risposi un po' sorpreso ed imbarazzato.

"Come, non lo sai? Non è possibile andare in albergo con la ragazza. Devi andare in una casa particular" rimandò lui. "Ma dai, Rayko, se questo è un sistema per guadagnare altri dollari..." replicai.

"Italiano, no! -fece categorico- Chiedi alla reception".

Con la promessa di riparlarne il giorno dopo, raccolsi le mie cose da spiaggia, lasciandogli in regalo una t-shirt,  5 dollari ed una lattina di birra e rientrai in albergo. Ma, prima di arrivare alla reception, mi fermai al bar della piscina, dove due signori, quasi attempati stavano conversando fragorosamente.

Ordinai una Bucanero forte e mi misi a sorseggiare la birra gelata con l'intenzione di captare la conversazione in corso. Tra i due, fortemente abbronzati, c'era quasi una competizione su chi indossasse più oro. Li osservai attentamente: pancetta pronunciata in uno, corpo più asciutto nell'altro; capelli radi che non riuscivano più a nascondere più nulla nel primo, capigliatura  lunga e folta racchiusa con un elastico nell'altra. M’immaginai la loro storia. Quello meno appariscente, dalla pronuncia romanesca, sembrava il classico padre di una famiglia quasi numerosa e conviviale. Imprenditore, forse, di un'attività commerciale che aveva visto giorni migliori, se la stava spassando a Cuba, ricercando un amore non più possibile a casa sua a spese del portafoglio gonfio e generoso. L'altro, dall'aria corsara e dalla provenienza nordista, dava tutta l'impressione dell'uomo di vita che ne aveva sperimentate di tutti i colori e, forse, ora qui a vivere il suo canto del cigno prima dell'inevitabile fine. Ma ancora non si arrendeva. E lo si capiva dal suo aspetto di playboy incallito e dal suo modo di fare. Le rughe che incorniciavano il suo volto regolare, si modificavano ogni volta che cambiava espressione mentre seguiva attentamente la conversazione dell'amico romano. Entrambi stavano fumando sigari Montecristo, acquistati di contrabbando al prezzo di 10 dollari la scatola, mentre sorseggiavano drink a base di Havana Club, il più commerciale ron cubano.

"Ma tu fai il gentiluomo oppure il porco?" chiese il romano.

"Il gentiluomo - ribatté l'altro- e tu?"

"No. No...io faccio il porco. Due o tre ragazze a sera, dipende..." rispose con aria divertita.

Mi avvicinai incuriosito. "Scusate -dissi- vedo che siete abbastanza esperti, mentre io non ne so molto di usi locali. Potreste darmi alcune indicazioni?". Il nordista accennò ad un sorriso ed iniziò a parlare.

"La realtà è molto articolata. Io vengo a Cuba due o tre volte l’anno, da più di cinque. Ho iniziato a girare l'isola come turista. Ho conosciuto molta gente dalla quale ho appreso molte cose. Ad esempio, nonostante l'embargo in vigore dagli inizi degli anni '60, quest'isola ha in ogni modo vissuto dignitosamente grazie agli aiuti dell'Unione Sovietica che, passava loro, milioni di dollari e tecnologie in cambio della fedeltà politica e della canna da zucchero. Poi, con la caduta del muro di Berlino ed il crollo del comunismo, l'ex Unione Sovietica ha sospeso improvvisamente -come logico- qualsiasi forma di assistenza. Questo ha generato il cosiddetto "periodo speciale", che è ancora in corso. Generi alimentari e di consumo comune non si trovano più, se non con il contagocce e tutta la popolazione è finita in miseria. E così, Cuba, ha deciso di puntare sul turismo, abbassando i prezzi di tutti i servizi alberghieri ed incentivando, così, l'arrivo di valuta pregiata al seguito dei viaggiatori. Ma questo fenomeno ha provocato anche, la corsa al turista ad parte di ragazzi e ragazze,  pronti a tutto pur di rimediare dollari e benefici".

Il nordista schioccò le labbra e bevve un abbondante sorso di acqua minerale che, nel frattempo, si era fatto servire. Il romano, dal suo canto, guardava sornione annuendo ogni tanto in segno di approvazione. Il nordista riprese: "Cuba è, oggi, un grande mercato nero. Una Napoli antesignana ma caraibica. Si commercia di tutto: dalle aragoste, vietate ai cubani da oltre trentacinque anni, ai sigari passando dal rum al corallo nero. Poi, tutti s'industriano con tutto. Se ti occorre una taxi privato, prendi un "particular" che per la metà del prezzo dei taxi ufficiali, ti porta dove vuoi. Vuoi una casa per portarti una ragazza oppure per risparmiare rispetto al costo di un soggiorno in albergo? Affitti una casa particular e, con 10-15 dollari, risolvi il tuo problema dell'alloggio. Puoi mangiare in case che ti preparano un pranzo a base di aragosta, riso e fagioli e contorni vari con 7 dollari. Ma sono tutte cose altamente proibite dallo stato. Tu, come turista non sei ovviamente tutelato, sei semplicemente responsabile delle tue scelte, ma i cubani che offrono questi servizi, sono duramente puniti dalla polizia che può perfino mandarli in galera per anni. Eppure, qui fanno tutto per il dollaro". Il nordista spense la cicca del sigaro ormai finito e terminò di bere il drink a base di rum.

"E le ragazze" continuai.

A questo punto intervenne il romano, ormai pronto a dare una mano al suo quasi amico del nord. "Le chiche sono dolcissime e disponibilissime. Amano i turisti per i soldi che danno loro e per la vita di divertimenti che possono fare insieme. E comunque -sospirò- per tutte c'è il sogno di farsi sposare per ottenere il passaporto e la libertà di vivere in un altro paese". Il romano si grattò meccanicamente una guancia e continuò "A Cuba puoi trovare una ragazza con la quale vivere per tutta la durata della tua vacanza. Diventa una specie di fidanzata, novia si dice da queste parti. E come una fidanzata è gelosa, possessiva e, soprattutto, costosa. Oppure,  scegli di non legarti e puoi cambiare novia ogni volta che desideri. Basta contrattare il prezzo prima della prestazione sessuale, dai 30 dollari in su...per poi essere nuovamente pronto per nuove avventure".

Il nordista aggiunse "Vero è, che molti nostri connazionali si fanno accalappiare. Pensano di aver trovato l'anima gemella che li farà felici per tutta una vita. Ma, se eventualmente si sposano portando a casa una cubana, questa, il più delle volte, si guarderà attorno per migliorare la sua condizione sociale, magari trovando un altro uomo più ricco e generoso. La loro mentalità è felicemente basata sul divorzio. Pensa che c'è gente che si è risposata cinque, sei volte prima di posizionarsi con il patner definitivamente".

"Insomma -chiesi perplesso- tutta la dolcezza e l'amicizia null'altro sono che delle maschere che servono per prendere il turista all'amo?"

"Sai -rispose il nordista-...il più delle volte è proprio così. Tu, qua, paghi l'illusione di una more magari proibito in Italia. E, siccome le cubane ci sanno proprio fare, molte volte il turista o "pepe" come dicono nel loro gergo, ci casca con tutte le scarpe. Da questo pericolo sono esenti solo pochissimi che, conoscendo a fondo la gente cubana, i luoghi, il loro dialetto, non fanno più parte della categoria dei turisti ma diviene, agli occhi dei cubani, un camajan, cioè uno di loro".

Il romano aggiunse "Io non solo solo straniero. Mi sento turista e grazie al potere del dio dollaro trovo tutti i divertimenti che m'interessano. Per due settimane l'anno, sfrutto il più possibile questa mia condizione senza, però, rinunciare al lusso ed alle comodità dell'albergo".

In quel mentre, passarono davanti a noi tre splendide ragazze. Le osservai attentamente. Una mulatta dal corpo minuto ma con un culo esageratamente pronunciato. Portava le immancabili treccine racchiuse da uno chinon di finta seta. Un'altra era bianca, con una capigliatura bionda ossigenata. Aveva solo un bikini dagli alti slip che le modellavano una gamba lunga e nervosa. La terza era nera come l'ebano. Anche questa aveva una folta e crespa capigliatura sulla quale era ancorata una miriade di treccine lunghissime. Tutte e tre sorrisero mettendo in mostra una felice dentatura bianchissima e s'allontanarono verso la spiaggia, attendendo una nostra risposta. "Vedi -disse il nordista- le ragazze hanno gettato l'amo e per fare questo hanno rischiato parecchio entrando dentro l'albergo".

"Come?" esclamai sorpreso.

"Allora non hai capito bene -aggiunse il romano- Qua da loro, ogni cosa che da noi sarebbe logica è a loro vietata. L'albergo, il bar, il ristorante, la spiaggia e quant'altro riservato a noi turisti, è per i cubani interdetto. Non vedrai mai una ragazza bere un drink seduta a questo bar, a meno che non sia ospite di  un turista. Ma quando il turista è ripartito, la ragazza rischia molto. Allora nasce una serie di compromessi a suon di dollari. Una piccola mancia al barman, un'altra alla ragazza della reception, un'altra ancora alla persona della security. Tutti, insomma, sfruttano la situazione finché possono ma nessuno di questi, rischierebbe nulla per proteggere una jinetera".

"Perché si diventa jineteri?" chiesi cretinamente.

"La ragione -disse il nordista- è solamente una: la voglia di avere tutto quello che è possibile e senza faticare troppo".

Il romano ringhiò un ciao lasciandoci soli. Lo vedemmo allontanarsi verso la spiaggia alla ricerca della sua prossima conquista.

"Buffo, vero?" disse il nordista. "Non so" risposi sconcertato.

"Adesso ti faccio io qualche domanda per rendermi conto di cosa cerchi e se il mio aiuto ti occorre davvero - disse il nordista- E' la prima volta che vieni qui e lo si vede. Vorrei sapere se ha conosciuto qualcuno, che impressione ti sei fatto e cosa stai cercando".

Raccontai le mie emozioni ma non erano considerazioni già preordinate. Fuggivano dalle mie labbra nell'esatto momento in cui aprivo bocca. Gli dissi che avevo sempre pensato a Cuba come ad un bell'esempio di coraggio, per via della lotta che aveva intrapreso contro quasi tutto il mondo, dall'epoca della rivoluzione popolare dei barbudos. Avevo letto qualche testo sull'argomento e qualche altro sulla politica cubana che mi avevano dato una infarinatura su quella realtà che, ora, stavo assaporando. Raccontai di sapere la facilità di fare del sesso ma, seppure la cosa m'interessasse, non avevo il coraggio di abusare delle ragazze in quanto mi sarei sentito colpevole di uno sfruttamento, dovuto per lo più, al potere del danaro. E, quindi, avevo fino ad allora, rifiutato di accompagnarmi a bellezze tropicali molto coinvolgenti. La mia sensibilità, anzi, era cresciuta, facendomi vivere di riflesso, le preoccupazioni della gente del posto. Avrei, insomma, desiderato fare qualcosa per loro, per aiutarli oltre alle mie possibilità. Ma fino ad allora, ero rimasto solo con i miei pensieri che non mi facevano sentire ne carne ne pesce, stonandomi così, dal nucleo sia dei turisti che da quello dei cubani. Trovavo difficoltà a tradurre le mie sensazioni in parole perché, queste, non riuscivano a dare la giusta collocazione al mio incrocio di sentimenti e vibrazioni che provavo. Vivevo dei momenti esclusivamente miei mentre osservavo un tramonto che saliva alto nel cielo, così come ritrovavo gli stessi sapori, mentre osservavo i jineteri darsi tanto da fare per guadagnare dollari dai turisti. Insomma, mi sentivo coinvolto nella loro realtà rifiutando, però, qualsiasi ruolo nella stessa. Era come impazzire senza sentirsi addosso nessuna identità. Raccontai di Rayko e quanto fino ad allora mi aveva spiegato e terminai confermando la mia volontà nel conoscere più a fondo la realtà che avevo appena iniziato a sfiorare

Il nordista accennò ad un vago sorriso e s'accese una sigaretta dal forte tabacco nero. "Sai, ho proprio l'impressione che tu sia stato contagiato dalla febbre dell'isola -disse ridendo- E' quella fase che io definisco di innamoramento per tutto ci che si riferisce a Cuba". Rimasi in silenzio osservando una mosca svolazzare  sul bordo del bicchiere del cocktail ormai vuoto. "In poche parole, dici che sono...come dire, innamorato di Cuba?" replicai.

"Quello che tu provi, molti italiani lo hanno vissuto prima di te. Non devi sentirti unico. Ti sei mai chiesto perché tanti italiani ritornano diverse volte su quest'isola? Te lo spiego. Iniziano la scoperta durante il primo viaggio, ma il più delle volte é a causa di una ragazza che li fa innamorare. Girano, come t' ho detto prima, amore eterno. Anche se questa è la prassi, le ragazze la rinnovano ogni settimana ad ogni turista che riescono a conquistare. Comunque vadano le cose, Cuba non ammette vie di mezzo: o la si adora o la si odia. Coloro che ne sono stati rapiti dalla sua bellezza, dai suoi ritmi, dai suoi colori, ritornano per rivivere queste emozioni. Ed ogni volta arricchiscono il loro bagaglio personale di nuove esperienze e conoscenze che, come un intruglio magico, si miscelano una volta tornati in Europa. E questa pozione esplode in una sorda nostalgia, in un  amore impossibile, in un caleidoscopio di emozioni difficili da controllare e raccontare. S'innesta solo una complicità fra coloro che provano le stesse sensazioni e gli stessi sentimenti e che, magari, si trovano sull'aereo che li sta portando qui".

Vidi in lontananza il romano che si stava accompagnando con la ragazza bionda che ci era passata davanti prima.

"Però -obiettai- molti vengono a Cuba solo per il sesso fine a se stesso. Non mi sembra la stessa cosa di chi ritorna solo per l'amabilità della gente cubana".

"Il sesso, il sentimento...che differenza fa? E' poi una caratteristica soggettiva insita in ognuno di noi a creare le giuste motivazioni che occorrono per darci una giustificazione dei nostri gesti. Chi viene qui solo per fare del sesso è come colui che viene a Cuba per coltivare un amore. Non c'è differenza. Tutti sfruttano quello che desiderano a seconda delle loro emozioni".

Stavo osservando l'allungarsi delle ombre per terra. Tra un pò sarebbe scesa quasi improvvisa la notte tropicale; in sottofondo si poteva ascoltare un trio che stava provando le musiche che avrebbe suonato questa sera ai turisti, dopo la cena al buffet. Il nordista iniziò a guardarsi in giro, segno inequivocabile che il tempo che aveva concesso alla mia sete di sapere, si era esaurito. "Comunque -continuò- stasera potremmo uscire insieme. Conosci la discoteca Havana Club?". Scossi la testa in segno di negazione. "Resta al centro di Varadero ed è uno di quei luoghi dove capirai meglio ciò che ti ho detto. Ci vediamo al bar verso mezzanotte e mezza, prima non ne varrebbe la pena. D'accordo?". "Non sono proprio un tipo da discoteche -risposi- ma sono curioso di vedere cosa succede. A proposito, non ci siamo ancora presentati: io mi chiamo Claudio". "Pierluigi" rispose e con una mezza giravolta sulla punta delle scarpe uscì dalla mia vita in quel bar della piscina, lasciandomi pensoso. Avevo bisogno di una doccia e di aria condizionata.

Una vecchia De Soto del 1948 dall'incredibile massiccia carrozzeria color crema ruggine, ci stava conducendo verso il centro di Varadero. Pierluigi aveva contrattato il prezzo con un ragazzo mulatto dall'aria stanca. Con soli tre dollari potevamo viaggiare, quasi comodi, su di una vettura che aveva quasi mezzo secolo di vita. L'interno non esisteva quasi più. I pannelli erano di cartone e compensato ed erano tenuti tra loro da massicce dosi di filo di ferro. Era la prima volta che utilizzavo una macchina particular ma, a parte il penetrante odore di carburante che mi faceva girare un pò la testa, non avevo che di lamentarmi. Era anche la prima volta in sette giorni che lasciavo l'albergo di sera. Fumi grigio-azzurrini emessi da altre vetture d'epoca coloravano l'aria umida di una qualsiasi notte cubana. Il traffico si formava nonostante l'ora notturna a causa di vetture che si fermavano in panne in mezzo alla strada o a conducenti che si mettevano a chiacchierare fra loro, escogitando il sistema di svoltare la serata. Buik, Chevrolet,  De Soto, Ford e quant'altro c'era stato nella produzione nordamericana durante gli anni '40 e '50, si confondevano con le più recenti Lada e Moskovich degli anni '70 e '80 importate dall'Est. Le luci degli alberghi si fondevano con quelle di alcuni locali aperti ai turisti e con quelle delle tiendas Tekade aperte a tutti. Per la lunga striscia d'asfalto che attraversava la località come una precisa scriminatura, camminavano mollemente centinaia di ragazze all'ossessiva ricerca del turista. Erano tutte vestite alla stessa maniera: pantacollant elasticizzati dai colori sgargianti, bolerini di strech che mettevano in risalto seni più o meno prosperosi, scarpe con tacchi vertiginosi, cascata di treccine che non coprivano volti disegnati da trucchi incredibilmente marcati. Ogni tanto, un capannello di gente si accalcava davanti ad un chiosco dove si poteva cercare riparo dalla sete, ordinando birra e succhi di frutta. Pierluigi rise e, voltando dalla mia parte domandò "Allora? Sembra di essere a Rimini di ferragosto? Vedrai all'entrata della discoteca..." e si girò per guardare una jinetera in mezzo alla strada.

L'entrata dell'Havana Club era incredibilmente affollata. Due ali di ragazze e ragazzi facevano da corona al vialetto che conduceva all'ingresso del locale. Trenta metri di persone disposte a tutto pur di regalarsi una serata all'insegna di un  divertimento a loro proibito. I ragazzi cercavano di attaccare ogni turista che transitava loro davanti per raggiungere il portoncino della discoteca, proponendo ogni tipo di affare: sigari, ragazze, auto particular, case...tutto sempre sotto l'insegna del dollaro. Le ragazze, dal canto loro, erano messe in bella mostra per vendersi al miglior offerente, richiamando l'attenzione con sorrisi e schiamazzi per farsi, così, scegliere. Riconobbi, tra i tanti, Rayko che, vedendomi, mi raggiunse. "Ehi, italiano, bella sera!" disse con un vago accento del nord Italia. "Si, credo anch'io" risposi sorridendo. "Ascolta. Ti presento mia cugina Fidelia. E' qui da un paio d'ore ed aspetta di entrare in discoteca ma non ha i cinque dollari per pagarsi il biglietto. L'accompagni tu?" e senza attendere la mia risposta, chiamò una ragazza che stava conversando in mezzo ad un gruppo di jinetere. Fidelia era di una bellezza incredibile. Mulatta dalle proporzioni esatte, aveva degli incredibili occhi neri messi in risalto da un sapiente ma leggero trucco. Una minigonna nera metteva in risalto un paio di gambe lunghe e ben tornite così come, un corpetto di pizzo sempre nero, le modellava il busto evidenziandole un bel seno eretto. Le treccine erano accuratamente racchiuse da una bandana che le riuniva a se, per evitare che la massa lanosa si spargesse per tutta la schiena. La bocca era accuratamente dipinta con un rossetto lucido che faceva da contrasto con la pelle vellutata color caffelatte. Mi sorrise e parlò con Rayko molto velocemente. Poi si presentò "Ciao. Mi accompagni dentro? E' molto che aspetto ma nessuno mi fa entrare...". Osservai con la coda dell'occhio il gruppetto di persone dal quale Fidelia si era staccata. Stavano anche loro osservando la scena per vederne il finale. Pierluigi, invece, stava chiacchierando con una ragazza che, sembrava, conoscesse già.

"Si non c'è problema" dissi. Fidelia si mise istantaneamente sotto braccio come un predatore che ha ghermito la sua preda. Mi sentivo strano. Era una bellissima ragazza che mi sarebbe piaciuto conquistare, ma non volevo assolutamente comprare il suo amore. Mentre pagavo l'ingresso pensai -forse per mettermi a posto la coscienza- che stavo facendo un gesto di generosità e che non avrei voluto ricevere nulla in cambio. Ma non sapevo che quello era l'inizio di un'avventura.

L'Havana Club mi accolse con tutto l'assordante rumore che poteva. Luci stroboscopiche, effetti neon e psichedelici, facevano da cornice ad una popolazione di turisti arrossati dal sole e a cubani che ballavano con un ritmo impossibile da imitare. C'era una specie di arena centrale delimitata da una serie di ballatoi e scaloni a scendere. Proprio nel mezzo, si accalcavano i migliori ballerini di salsa e merengue che io avessi mai visto prima. La musica underground si miscelava sapientemente con ritmi dal sapore tropicale rimixati appositamente per le discoteche. E tutto questo, senza uno stridente contrasto tra le differenti fonti di musica. Guadagnai un posto da dove, comodamente seduto, potevo godermi la scena, mentre Fidelia mi seguiva docile come un cagnolino ammaestrato. "Quiere bailar?" mi disse urlando per farsi capire. Al mio cenno di rifiuto aggiunge "Ti dispiace se io ballo un poco?" e senza attendere la mia risposta si gettò nella mischia. Movenze sensuali danzate ad un ritmo infernale animavano ora, il suo corpo. Era come se stessi assistendo ad una gara fra tutti coloro che stavano ballando in quel momento. La musica, davvero assordante, mi prendeva al cervello aiutata anche da un sapiente gioco di luci ed effetti che coloravano la regia di una serata come tante all'Havana Club. Frammenti di danza, volti apparentemente famigliari, sapori ed umori di alcol e sudore, tutto si confondeva in un magma di sensazioni indescrivibile, come in un videoclip musicale. Lei, Fidelia, era al centro della pista, competendo con altre stupende ragazze di colore. Tutti, comunque, ci mettevano l'anima per sfogare fame e disperazione repressa, mentre approfittavano dell'occasione fornitagli da qualche turista sicuramente interessato al dopo discoteca. Terminai di sorseggiare un mojito decisamente annacquato, quando Fidelia tornò da me. "Ti diverti?" le dissi con tutto il fiato che avevo in corpo. I suoi occhi brillavano di gioia e sorridevano mentre aveva iniziato a bere un succo di mango gelato. "Che vuoi fare, dopo?" mi chiese. "Non lo so...ne parliamo quando avrai finito di ballare" urlai. Si gettò nuovamente tra la folla sudata. Osservai l'ora constatando che erano da poco passate le tre e mi sentii improvvisamente stanco. M'avvicinai al bancone del bar per bere qualcosa ma dovetti vincere l'assalto di due ragazze che, mi avevano proposto una calda notte d'amore. Era proprio un luogo dove l'italica stirpe aveva multiple possibilità per immedesimarsi in Rodolfo Valentino. La mia curiosità e le considerazioni elucubrate in rapida sequenza, avevano lasciato spazio ad una leggera emicrania accompagnata dalla voglia di rientrare in albergo. Non riuscivo più a vedere Fidelia mentre il nordista si era già eclissato con una ragazza già da tempo. Uscii dalla discoteca deciso a trovare un taxi per rientrare in albergo ma, all'uscita, un nugolo di ragazze mi si avvicinarono decise a piazzare la loro presenza.

"Italiano!" era Rayko. "Vuoi una casa? Dov'è Fidelia?" chiese con estremo interesse. "E' restata a ballare, credo" ribattei con un pò di noia. "Non ti piace? Vuoi conoscere altre chiche? Ho tante amiche che sono libere e felici di stare con te..."continuò. "Rayko -risposi- sono stanco e non voglio conoscere ragazze stanotte, anzi, mi piacerebbe rivedere Fidelia, se possibile, ma non adesso..". Il cubano mi sorrise "Sapevo che ti sarebbe piaciuta. E' molto bella, e poi non è una vera jinetera. Domani mattina verremo a trovarti sulla spiaggia" e con un gesto rapido attirò l'attenzione di un particular che, pigramente, si avvicinò. "Dagli solo tre dollari e ti lascia a 50 metri dall'albergo. Buena noche italiano..".

Un sole appannato da una teoria di nuvole quasi minacciose, accese la giornata. Era tardissimo e non ero ancora del tutto sveglio neppure dopo una lunga doccia. C'era qualcosa di strano che avvertivo in me ma che non sapevo identificare. Scesi al bar e, dopo aver bevuto un caffè quasi italiano, m'incamminai verso il mare. D'un tratto ricordai di Fidelia e della notte appena passata. Ecco cos'era quella sensazione: l'emozione per un incontro, sollecitato dalla mia voglia di conoscere quella ragazza. Mi si attorcigliarono le budella e rimasi con me stesso a fare una introspezione dei miei desideri. Cosa stavo cercando? Sicuramente mi attraeva fisicamente  ma non desideravo comprare il suo amore. Stavo dando delle giustificazioni alla speranza di potere avere un relazione normale con lei? Ma perché quest'isola e tutti i suoi abitanti erano così complicati? Ripassavo mentalmente il discorso fattomi dal nordista il giorno prima. Forse, lui non si faceva più degli scrupoli o, comunque, sapeva come agire in queste situazioni. Ero giunto sulla spiaggia. Una deliziosa fila di ombrelloni di paglia cucivano una zona d'ombra che si adagiava sui lettini già sistemati. Il piccolo chiosco dov'era possibile bere e mangiare era già aperto. Alcuni turisti stavano prendendo il sole che non c'era e molta gente giocava nell'acqua trasparente. Il mare dei Caraibi aveva un colore verde smeraldo che sfumava in mille tonalità in celestino per poi divenire trasparente vicino alla riva. Sul bagnasciuga vidi Rayko in compagnia di Fidelia. Fece dei grandi gesti per salutarmi. "Italiano..pensavo che non venissi più. Ecco, ti ricordi Fidelia?" ed allargò il braccio destro a semicerchio come si usa nei bazar orientali per far vedere la propria mercanzia. Fidelia sorrise dolcemente e mi salutò. "Dove eri finito? Ti ho cercato per l'Havana Club ma non c'eri più" disse con una vocina sconsolata. Pareva che mi conoscesse da sempre e che il no avermi trovato la sera prima, fosse stata la disgrazia più grande che le potesse capitare.

"Ero stanco ed anch'io non ti ho vista più" dissi con una punta di imbarazzo. Ma perché mi dovevo giustificare con lei? Qual'era lo strano meccanismo che mi faceva sentire in colpa? In fondo, neppure la conoscevo e tanto meno le avevo promesso nulla."Amigo -interruppe Rayko- io devo andare a Cardenàs ora. Ti lascio Fidelia: fate amicizia ma ricordati che non può salire in camera tua in albergo. E' vietato". Poi disse qualche frase in un dialetto che non compresi e se ne andò.

"Cosa facciamo?" chiese sorniona. "Sei tu la cubana -risposi- io non so cosa proporre. Decidi tu per tutti e due...".  Aggrottò un pò le ciglia come per farsi venire una idea e poi si rivolse a me "Andiamo a Matanzas. Prendiamo un carro, conosco un posto dove possiamo mangiare aragoste e gamberoni in tranquillità" e così dicendo si mise sottobraccio conducendomi verso il parcheggio dell'albergo.

La Chevrolet filava regolarmente a quaranta chilometri all'ora. L'inconfondibile odore del carburante penetrava dentro l'abitacolo ed usciva attraverso le portiere dai finestrini abbassati. Il ragazzo che faceva da autista era amico di Fidelia. Per combinazione, mi spiegò, lo aveva trovato fuori dell'albergo e, quindi, lo aveva impegnato per tutta la giornata con un compenso di cinquanta dollari. Sarebbe restato tutto il tempo con noi per evitarci il fastidio di trovare un'altra auto per il ritorno. Rimuginavo sulla ragnatela di interessi e relazioni commerciali che dovevano regnare sull'economia del socialismo reale. Arrivammo a Matanzas fermandoci di fronte ad una casetta vicino al mare. L'acqua aveva un colore anonimo e non pareva di essere ai Caraibi. Fidelia scese dall'auto mentre il nostro autista rimase seduto al posto di guida. "Scendi, siamo arrivati" mi disse perentoria. "E lui?" le chiesi indicando con la testa il ragazzo della macchina. "No problem. Fa la guardia alla sua auto e poi andrà a mangiare un perro caliente qui vicino. Dai, vieni con me... tienes miedo?". "Cosa dici? Non capisco..." e dicendole questo la raggiunsi. "Miedo è paura, perro caliente è hot dog. Capito?" e sorrise nuovamente. Era proprio bella e dolce. Chissà cosa nascondeva quella dolcezza e se era proprio autentica. Decisi di non angustiarmi la giornata da sterili considerazioni che mi facevano sentire sempre più solo in quella Cuba così singolare. Fidelia bussò alla porta della casetta bianca. Ci aprì una matrona negra dai crespi capelli grigi. "Bienvenidos da mama Estrella" disse allargando le labbra e mettendo in mostra denti gialli da accanita fumatrice. Entrammo all'interno di una spaziosa camera che fungeva da salone. Un tavolo rettangolare era già apparecchiato con una tovaglia di un colore rosa pallido che doveva aver visto giorni migliori e da un pretenzioso servizio di ceramica bianca tutto orli e bordi. Un penetrante odore di cucina assalì le mie narici. Il vecchio televisore era acceso e sintonizzato su Cubavision dove stavano trasmettendo un programma di cartoni animati. Ci sedemmo su di un divano di finta pelle verde alquanto appiccicoso. "Ti piace?". Mi guardai attorno rispondendole "Veramente devo ancora capire..." risposi. Fidelia aprì il suo sorriso e fece brillare i suoi incantevoli occhi neri. Appeso alla parete più ampia troneggiava un grande ritratto di Che Guevara. "Che ne pensi di Guevara?" chiesi a bruciapelo per trovare un qualche argomento che mi mettesse fuori dall'imbarazzo che stavo provando. "Era bravo" rispose senza entusiasmo. Poi aggiunse "Mama Estrella lo ha conosciuto...". Un piccolo fremito scosse il mio corpo. Mi portavo appresso, infatti, l'idea mitizzata dell'eroe della libertà. Quell'idea iconografica che tanti giovani aveva conquistato fin dalla fine degli anni sessanta e per tutti i settanta, cioè, fino a quando l'interesse per la politica attiva aveva coinvolto tutto il mondo giovanile. Dopo, il riflusso ed il ristagno delle idee, la paura del terrorismo, la noia emanata dalla televisione, la sterilità delle conquiste ottenute avevano abbattuto lo stimolo del credere su dei valori portati dall'attivismo politico e, ad una ad una, erano cadute le stelle che avevano infiammato il cuore di molti giovani: Mao, Lenin, Marx. Ma resisteva, comunque, il mito del guerrillero heroico. Resisteva il volto del "Che" che ancora sventolava su bandiere rosse e campeggiava su t-shirt stampate in Thailandia e vendute in tutti i mercatini del mondo. Avevo una mia idea a proposito di quell'uomo. Sin dal mio arrivo a Cuba avevo osservato, e non si poteva altrimenti, che la sua figura era presa e mercanteggiata in ogni occasione: magliette, bandierine, portachiavi. Per non parlare della famosa canzone Hasta Siempre che, per ogni dove, dai locali per finire sulle spiagge, era cantata e suonata a favore dei turisti. Insomma, quello che avevo sempre pensato a proposito della sua figura, si era sbriciolato come mollica vecchia, di fronte alla constatazione dei fatti di cui ero stato testimone: Ernesto Che Guevara era solamente un buon conduttore per fare soldi. Mama Estrella entrò nelle mie considerazioni con una fiamminga sulla quale troneggiava un'aragosta arrostita. Successivamente ampliò il nostro pranzo con piatti di congrì, insalata e banane fritte. Fidelia guardava divertita e compiaciuta il lauto pranzo, non dimenticandosi però, di sbirciare dalla mia parte per osservare le mie reazioni all'arrivo di ogni pietanza.

"Dal momento che dovevamo mangiare, ti ho portato da Mama Estrella perché cucina bene ed è pulita. Ti piace?" chiese. Sorvolai sul fatto che tutto mi sembrava ben programmato da Rayko. Ero un turista e dovevo convincermi del fatto che tutti avrebbero cercato di sfruttarmi fino alla fine. "Si. L'ambiente è tranquillo. Però, dopo pranzo, vorrei parlare con Mama Estrella per chiedergli qualcosa sul Che. Posso?". Fidelia sorrise, annuendo con la testa. Aveva iniziato a riempire il suo piatto con delle incredibili porzioni di cibo, mischiando il tutto in modo da rendere il più possibile, omogeneo il suo pasto. La televisione, nel frattempo, aveva finito di funzionare e la padrona di casa stava armeggiando sui manopoloni per cercare una improbabile riparazione. Dopo avere brigato un pò, la vecchia matrona riuscì a sintonizzare la tv su Tele Rebelde che stava trasmettendo un documentario su Josè Martì, il famoso poeta rivoluzionario dell'800 che tanto aveva fatto per l'indipendenza di Cuba. Continuai a mangiare rivolgendo, ogni tanto, il mio sguardo su Fidelia. Cosa stavo cercando? L'atmosfera che si era creata era falsa. Tutto era stato programmato con meticolosa cura dei particolari. Era come un gioco. Loro sapevano che io sapevo, ma tutto questo non aveva nessuna importanza. Mi trovavo per la prima volta in una casa particular a mangiare un pranzo particular e tutto accompagnato da una splendida jinetera. Sapevo che sarei finito a letto con lei ma non accettavo di ottenere quello che desideravo in quel modo. L'aroma del caffè Cubita, aleggiò per l'aria umida e calda della casa seguito da Mama Estrella che entrò nella stanza con un minuscolo cabaret con due tazzine. La vecchia negra, dal volto imperturbabile, lasciò tutto sopra il tavolo sparecchiando abilmente i piatti ormai vuoti, delle pietanze. Fidelia avvicinò la tazzina alla bocca ma non bevve. Mi guardò incuriosita chiedendomi "Non ti diverti?" ed attese la mia risposta. Accesi meccanicamente una sigaretta. "Il problema non è questo. Sto bene insieme a te. Solo che vorrei stabilire un rapporto differente, mi capisci?" le chiesi aspirando la prima boccata di catrame. Lei rimase stupita ed interdetta. "Non ti piaccio?" disse mentre allargava i suoi occhi da cerbiatta ferita. "Moltissimo" replicai sinceramente. Si alzò dalla sedia e, girando attorno al tavolo, venne da me cercandomi la mano. "Vieni" disse. Intimidito mi lasciai guidare verso la camera da letto. Un vecchio condizionatore rinfrescava sufficientemente l'ambiente modesto: un letto quasi matrimoniale, due comodini di legno chiaro consunti dalla salsedine, un piccolo comò con uno specchio appeso alla parete, una sedia. Fidelia chiuse le imposte realizzate come si usa a Cuba, da piccole assicelle di legno comandate da una guida laterale. La stanza piombò nella penombra e, con mosse calibrate, iniziò a spogliarsi: prima della minigonna rossa, poi del bolerino elasticizzato nero che indossava la sera precedente. Restò semplicemente vestita con un minuscolo perizoma nero. Mi sdraiai sul letto continuando ad osservarla. Era stupenda. Il corpo proporzionato e ben fatto, era inguainato dalla sua pelle vellutata. Nella poca luce, riuscivo a decifrare il suo sorriso sicuramente abituato a vedersi  specchiato nella bramosia che suscitava verso i turisti che si erano trovati nella mia stessa situazione. Candidamente mi chiese "E tu non ti spogli?" e si gettò al mio fianco. Una miriade di pensieri affollarono disordinatamente la mia mente. La strinsi vicino a me. Sarebbe stato bello se fosse stata la mia ragazza, pensai con un certo senso di disagio.

"Fidelia...tu mi piaci moltissimo e mi attrai tanto. Il problema è che vorrei riuscire a stare con te, se tu veramente lo desideri. Cioè -dissi confuso- non ti voglio avere solo perché posso darti dei dollari per farlo. Mi capisci?". Lei mi osservò divertita. "Ma che problema c'è? Se ti piaccio possiamo fare l'amore. Hai i preservativi" chiese diretta.

"Fidelia, forse non hai capito -continuai- io desidero conoscerti, stabilire una relazione normale, senza comprarti...". Le accarezzai dolcemente il viso incorniciato dalle lunghe treccine. "Se non ti piaccio -fece quasi piagnucolando- potevi dirlo a Rayko...avrebbe trovato un'altra cugina che ti andava bene...forse bianca" e così dicendo si raggomitolò su se stessa, fuggendo dalla mia stretta. Mi sentivo come un animale in gabbia. Mi piaceva e la desideravo ma non accettavo quel modo di conquistarla. Mi faceva tristezza credere che lei, forse, stava soffrendo a causa del mio atteggiamento. Avevo cercato di spiegarle le che non si trattava di un problema di bellezza o di preferenze ma solo un modo diverso di vedere le cose. Accesi un'altra sigaretta mentre continuavo le mie considerazioni, pensando a quanti turisti avevano fino ad allora rinunciato alle sue grazie. Mi venivano in mente il romano ed il nordista. Chissà se al mio posto avrebbero avuto i miei stessi scrupoli. Cuba, ancora mi stupiva. Fidelia si stava rivestendo delusa come deluso trovai lo sguardo di Mama Estrella quando mi vide oltrepassare la porta della camera da letto, per raggiungerla nella minuscola veranda, dove si faceva cullare da una antiquata sedia a dondolo. Le sedetti accanto. "Fidelia mi ha detto che ha conosciuto Guevara..." dissi scandendo bene le parole affinché mi capisse. "Fuè un hombre muy heroica. El Che amava la gente. Me intiende senor? Si tu quieres yo te hablo en italiano..conosco un poco la vostra lingua" e tossì. "Dimmi Estrella...quando lo ha conosciuto?" chiesi."Agli inizi degli anni sessanta quando era Presidente del Banco Centrale. Io lavoravo al Ministero e ci fu una assemblea per premiare quelli che avevano ben lavorato per lo stato. Io ero stato premiata e il Che mi consegnò una medaglia. Quanto era bello...". Si alzò all'improvviso e tornò subito dopo con una sbiadita foto in bianco e nero che mi allungò. Si vedeva Estrella trenta anni prima, più magra, mentre stava ricevendo il premio ed una stretta di mano dal Che. Lui, il mito, l'eroe, era vestito come sempre appare: divisa militare, pistola nel cinturone, basco nero. Ma dalla foto si leggeva un sorriso aperto, umano, cordiale. Sentii una emozione forte e continuai il mio interrogatorio. "Com'erano quei tempi?". La vecchia continuava a farsi dondolare dalla forza di inerzia. Fidelia apparve alla porta e ci raggiunse sedendomi sulle ginocchia. "Era tutto bello. El pueblo, credeva nella revolucion e lavorava duramente. Stava per finire l'analfabetismo e gli ospedali funzionavano nonostante el Bloqueo yankee. C'era molta speranza nel futuro ed i russi mandavano aiuti e dollari. Il Che aveva chiesto uno sforzo per aumentare la produzione della zafra. Si creò il lavoro volontario che veniva svolto nei momenti liberi. Ogni CDR reclutava companeros che, alla fine del loro turno di lavoro e nelle giornate di festa, andavano ad aiutare i millioneros, cioè i raccoglitori di canna da zucchero, nella loro raccolta. Tutto però era gioia e speranza e questo grazie a Fidel e al Che, che avevano acceso nel popolo la scintilla della dignità nazionale". Emise un sospiro carico di nostalgia e ricordi e s'accese una sigaretta senza filtro. Poi continuò "Il problema oggi, è la povertà. Nessuno aiuta più la nostra isola. Fidel deve lottare contro tanti nemici: i nordamericani, i cubani di Miami, il Fondo Mondiale, l'ONU. Tutti i capitalisti sono contro di noi e oggi, sena più sostegni materiali, ci troviamo in una situazione molto difficile. A noi vecchi, non ci fa paura. Abbiamo vissuto sotto la dittatura di Batista e la rivoluzione. Abbiamo vinto il banditismo della Sierra e lo sbarco controrivoluzionario della Baia dei Porci, sempre portando avanti le nostre idee. Non c'è più analfabetismo a Cuba. Ci sono Ospedali e policlinico per tutta l'isola. Il popolo gode dell'assistenza della libreta. Quello che mi preoccupa sono i giovani. Non hanno conosciuto tutto questo. Vedono solo i divertimenti e amano copiare le mode e gli usi che vedono dai turisti. A Cuba c'è anche la libertà di non lavorare...sarà la fine di un sogno". Uno scheletrico gattino attraversò il campicello desolato che ci stava davanti, cercando tra la spazzatura qualcosa da mangiare. "E adesso qual'è la soluzione?" le chiesi fissandole il volto rugoso ma pulito. "Combattere siempre l'imperialismo. Finché ci saranno Fidel y Raul, Cuba sarà sempre libera dal capitalismo". Inalò una buona dosa di ossigeno come per convincersi delle sue ragioni e continuò "Purtroppo, il periodo speciale è duro per tutti. E tutti si sono organizzati per guadagnare qualche dollaro dai turisti anche se va contro la logica del comunismo. Ma i giovani sono attratti da altre cose e non sanno bene che così, finiranno per complicarsi la vita". Fidelia si strinse a me cercando di comunicarmi qualcosa con il solo tatto. "Ho sete" disse ad un tratto interrompendo i ricordi di Mama Estrella. La vecchia s'alzò faticosamente andando in cucina e lasciandoci soli.

"Non ti annoi?" chiese con una smorfia. Con quella sua domanda mi aveva fatto comprendere di sentirsi esclusa da quella mia ricerca di verità; voleva rimpossessarsi di me e delle mie attenzioni. Estrella tornò con due bicchieri di birra e ci lasciò soli. Aveva afferrato il non troppo oscuro messaggio lanciatole da Fidelia. "Se  ti interessa, possiamo tornarci un'altra volta". Annuii con la testa e l'accarezzai dolcemente. Era la mia illusione "Fidelia, vorrei che noi ci conoscessimo meglio. Mi piacerebbe che tu restassi con me per il tempo che mi resta da passare ancora a Cuba". Lei sgranò gli  occhi guardandomi incredula "Sicuro? Non è uno scherzo -domandò sorridendo -Se tu vuoi posso restare con te nel tuo albergo ma devi pagare per un'altra persona". "Ma se Rayko mi ha detto che non è possibile...."risposi. "Lui pensava che tu non volessi pagare l'albergo anche per me, ma se vuoi, puoi andare alla reception e pagare...Veramente vuoi?".

Lasciai cinquanta dollari a Mama Estrella, anche se il prezzo era decisamente inferiore, contento di quella giornata promettendole di tornare a farle visita. L'entusiasmo di conoscere Fidelia aveva preso il sopravvento sulla mia razionalità e la possibilità di averla ospite fissa per il resto del mio soggiorno mi aveva alquanto eccitato lo spirito. Mi trovai a recitare la parte del turista scemo al direttore dell'albergo, il quale aveva minuziosamente controllato il documento di identità di Fidelia e pretesa il pre pagamento della sua quota, infine emettendo una specie di tesserino col quale si certificava che Fidelia Zunigo Eccevarria era una cliente dell' hotel fino al successivo sabato. Eravamo in precedenza passati a Cardenàs, nella casa in cui viveva Fidelia, a prelevare le sue cose raccolte alla rinfusa in una piccola borsetta da viaggio che, svuotò diligentemente, una volta messo piede nella mia camera.

"Ti amo!" disse raggiante uscendo dal bagno dopo essersi fatta una doccia ristoratrice. Mi venne da sorridere, pensando all'incongruenza di  quella frase che suonava così artefatta, ma non volevo deluderla: dovevo continuare ad indossare il ruolo di chi fa finta di non capire di essere l'oggetto del desiderio. Ci sdraiammo sul letto ed accesi la radio già sintonizzata su Radio Taino, l'emittente cubana dedicata ai turisti, da dove s'irradiavano musiche di salsa e merengue. La camera che ci ospitava era fresca grazie ad un buon condizionamento dell'aria. Mi sentii, all'improvviso, gratificato da quella situazione. Ma mentre riflettevo, Fidelia si avvicinò teneramente e mi baciò. Fu l'inizio di un incredibile amplesso che più si srotolava nel tempo, più assumeva contorni decisamente eccitanti tra una miriade di sensazioni ed umori selvaggi. Tutta l'anima caraibica di ceppo africano, era riassunta in lei che la dimostrava pienamente con mosse, gridolini, sembianze giocose e voglie represse. Alla fine, stremato, mi lasciai andare addormentandomi abbracciato al suo corpo. Quando mi svegliai, Fidelia dormiva ancora. Accesi una sigaretta pensandomi di non essermi affatto sottratto al ruolo che non avrei voluto ricoprire e, cioè, quello del bieco sfruttatore di situazioni. Cercavo una giustificazione plausibile a quanto era accaduto. Lei mi piaceva, amavo quell'isola, avevo delle dolci idee su un mio probabile ritorno. Mi domandai se non avrei potuto sviluppare un qualsiasi progetto che mi legasse per sempre a quei valori che mi erano sconosciuti in Italia, in fondo, qualsiasi amore aveva pur un inizio e quello, poteva essere il mio con lei. A quel punto mi sorpresi a pensare ciò che rappresentavo per Fidelia ma non m'illudevo troppo: ero sempre un turista con i dollari. Fu con quell'ultimo pensiero che spensi rabbiosamente la sigaretta e mi chiusi in bagno per fare una doccia.

Il ristorante dall'albergo era pieno di turisti e camerieri. Eravamo l'unica coppia mista e stavamo suscitando una certa curiosità. Osservando attentamente i turisti, percepivo che quasi tutti i loro discorsi erano accentrati su di noi. La bellezza della ragazza, l'idea che potesse essere una qualsiasi prostituta, l'anomalia della situazione: tutto contribuiva al formulare di mille e più domande e discussioni che s'intrecciavano tra i clienti, tra una pietanza ed un'altra. Il personale cubano, cuochi e camerieri, osservavano con estremo disgusto il nostro tavolo. Era fuori luogo che una loro compagna potesse stare con un turista in quella situazione. Le jinetere erano disprezzate da tutti perché rifiutavano quasi tutti i rapporti sociali con i cubani. Vivevano in un mondo a parte, dove i soli valori erano rappresentati dai turisti conquistati, dai divertimenti rubati, dai dollari guadagnati e dai benefici che potevano trasmettere ai famigliari più prossimi. Tutto il resto non contava più di tanto. Fidelia non cercava di sfuggire a quella insolita scena. Anzi, la divertiva e cercava, sempre di più, di evidenziarsi solo per il gusto della provocazione. All'inizio ero alquanto impacciato. Mi sentivo al centro dell'attenzione generale, guardato a vista da tutti, poi mi abbandonai al gioco che lei aveva cominciato. Iniziavo a prenderci gusto nel ridere di tutti quei turisti che si affannavano a giudicarci. Quanto poi, al personale di sala, seppur dispiaciuto per il loro comportamento gentilmente ostile, non ci prestai più attenzione sorvolando, in quel modo, di pormi qualsiasi problema. Ad un certo punto della cena Fidelia disse "Quanto sono stronzi. Guardali i cubani...sono invidiosi di te perché tu mi hai ed io posso mangiare quello che voglio!" "E i turisti?" le chiesi. "Stronzi uguale. Pensano che io vada con tutti per soldi ma non è così. Devi sapere che sono io che scelgo con chi stare" rispose seria. "Perché, tu mi hai scelto?" le rimandai. ""Claro! Ti avevo visto in spiaggia da solo. Mi sei piaciuto ed ho chiesto a Rayko di presentarmi a te" rispose continuando a mangiare delle fette di banana fritta. Cercai di ricordarmi di lei facendo un rapido fashback ma nulla affiorò dalla mia memoria. Continuai. "...E quando mi hai visto?". Si pulì le labbra col tovagliolo e confessò "Tu sei arrivato sabato scorso e ti ho notato quando stavi in attesa delle chiavi della tua camera. Poi, anche la domenica mattina, quando hai fatto una passeggiata  in riva al mare..poi, il lunedì mentre eri...". La interruppi "Insomma, mi hai seguito?". "Qua a Cuba, le ragazze cercano di fare delle conoscenze. E' molto importante l'aspetto ma anche il comportamento del turista. Tu sei sempre stato molto gentile con Rayko, poi non hai voluto ragazze da singare e ho capito che mi piacevi" aggiunse. "E sono stati molti quelli che ti sono piaciuti in passato?" chiesi. Abbassò gli occhi non rispondendo a quella stupida domanda. Mi morsi le labbra pensando a quanto fossi stato indelicato. Due lacrime solcavano ora quell'incantevole viso, sgorgando dai suoi occhi umidi. Si schiarì la voce e prendendo le chiavi della stanza si eclissò lasciandomi solo con i miei stupidi pensieri. L'uscita improvvisa di Fidelia dalla sala ristorante provocò una ulteriore interesse alla curiosità quasi sopita dei commensali, ormai abituati alla nostra promiscua presenza, i quali trovarono un altro spunto di conversazione. Dopo aver firmato il conto, raggiunsi il bar,posto al centro della piazzetta dell'albergo. Il nordista stava sorseggiando un Cuba Libre, fumando l'immancabile Avana. Vedendomi mi salutò come fossi un vecchio amico."Conquiste?" chiese sorridendo. Gli raccontai di quello che mi era accaduto a partire dalla serata dell'Havana Club in poi, dettagliando il mio stato d'animo a proposito della mia relazione con Fidelia senza rendermi conto del nervosismo che mi stava salendo. Il nordista assorbì il mio sfogo con estrema attenzione continuando a centellinare il suo drink. Il mio era uno sfogo in piena regola e, man mano che parlavo, mi rendevo conto di stare a fare una vera autocritica a proposito delle false sensazioni che avevo provato. Alla fine mi sentii svuotato da quella lunga confessione.

"Il problema è che tu sei innamorato di una idea di bellezza che qui hai trovato in Fidelia. Per te, lei rappresenta la dolcezza, la dignità e la fierezza di un popolo, le sofferenze di molte generazioni che sono passate da una dittatura coloniale ad un regime di piattezza che doveva assicurare loro un benessere che non hanno. Tu trovi in questa situazione, quanto non puoi trovare in Italia, nel tuo lavoro, nei tuoi amici, nelle tue azioni quotidiane. Per te, Cuba, e per Cuba Fidelia, è uno sfogo alle tue repressioni più o meno larvate. Hai anche manipolato la tua voglia di essere, fintanto che ti sei illuso di vedere quello che volevi vedere ma sei sempre rimasto te stesso. Un esempio è la stupida domanda, atto di gelosia e possessività, che hai rivolto stasera alla tua novia. Cosa avrebbe dovuto risponderti? Che eri il suo unico e più grande amore? Fidelia è una jinetera e come tale ha vissuto e vivrà anche dopo la tua partenza dall'isola. Non puoi fare nulla per modificare la sua realtà". Sospirai, pensando a quanto avesse colto nel segno. Dimostrava di essere un buon conoscitore di Cuba e un ottimo psicologo. A me restavano tutti i problemi che mi ero creato senza sapere come risolverli. "Hai suggerimenti da darmi?" chiesi. Fece degli anelli di fumo mentre rimuginava, poi rispose "La tua donna dovrebbe essere come le altre ragazze cubane. Per loro, l'infanzia non c'è mai stata. Sono, quindi, come delle bambine non realizzate. Il mio solo consiglio è quello di regalagli una bella bambola con la quale, la tua novia, può giocare a fare la mamma. E' sicuramente meglio di un mazzo di fiori...il resto lo devi inventare tu, se tieni a scusarti con lei". Da lontano arrivava il suono della piccola orchestrina, che suonava canzoni melodiche a favore dei turisti che, immaginavo, ballare teneramente al ritmo del son cubano. Guardai il m io amico continuare a sorseggiare lentamente il suo cocktail e a ridere, con lo sguardo, del mio piccolo dramma. Lo salutai e mi avviai verso la tienda dell'albergo. Per mia fortuna la trovai ancora aperta e cercai, tra shampoo e magliette, una piccola bambola da regalare a Fidelia. Non c'era una grossa scelta, anzi. Rimediai solo un piccolo pupazzo di plastica che, nelle intenzioni, doveva assomigliare ad un neonato. Made in Hong Kong ed esportato da una ditta napoletana, questo recitava la targhetta. Non potevo pretendere di meglio per cinque dollari. Salendo la rampa di scale che mi conduceva alla mia camera, mi accorsi di come stesse battendo forte il mio cuore: era come andare al primo appuntamento con una ragazza. L'emozione, l'ansia, il desiderio e la paura si confondevano insieme, mettendomi una strana agitazione addosso. Cosa mi stava accadendo? Aveva ragione il mio amico nel dirmi che ero l'artefice di tutto questo guazzabuglio, oppure ero solo una vittima predestinata dalle circostanze? Fidelia aprì la porta della stanza. Indossava una minuscola vestaglia da notte molto lisa e stropicciata ma pulita. Senza dirmi nulla ritornò a sdraiarsi sul letto a vedere la televisione, sintonizzata su di un programma trasmetto da un canale satellitare. Le sedetti accanto iniziandole ad accarezzarle i capelli. Chiusi gli occhi: avrei voluto regalarle la luna ed invece avevo solo quello stupido pezzo di plastica stampato, nelle mie mani. "Scusa" le sussurrai e le diedi il piccolo giocattolo. Un gridolino di gioia ruppe quell'imbarazzato silenzio. "Per me? Ma è bellissimo amore..." e si impossessò del bambolotto. Era comico tutto questo. Fino a pochi attimi prima, regnava un'atmosfera pesante mentre adesso sembrava essere all'asilo materno. Fidelia giocava con il pupazzo rigirandoselo tra le mani mimando gesti antichi che si sviluppano tra mamma e figlio. Aveva acceso in lei l'interesse ed i suoi occhi brillavano di luce perforando il buio della notte e sorrideva con gusto mentre accennava nenie cubane:::

Le notti si erano alternate ai giorni. Andavo avanti con il mio rapporto con Fidelia. Avevo scoperto molte cose di lei: era una continua emozione lo starle vicino. Aveva un fratello di nome Jorge che stava facendo il servizio militare presso una caserma dell'Avana. Sua madre, Fanny Maria, era rimasta al paese natale: Moron, nella provincia di Ciego de Avila. Era separata dal padre di Fidelia e si era risposata con Hector, un brav'uomo che lavorava come netturbino e cercava di arrotondare le entrate con qualche piccolo lavoretto di giardinaggio nell'albergo della cittadina. Possedevano una misera casetta di pochi metri quadrati dove dovevano convivere, dividendo quello che non c'era. Il bagno non aveva acqua corrente e si doveva provvedere a questa, riempiendo i secchi; per il telefono si erano messi d'accordo con una loro vicina che dava la possibilità di ricevere le telefonate in cambio di qualche peso a chiamata; il mangiare era sempre rappresentato dal congrì; avevano una piccola televisione in bianco e nero dove vedevano, soprattutto, le telenovele per le quali andavano matti.Non c'erano topi ma, in compenso, regnavano le piattole. Per questi motivi, Fidelia aveva messo le ali per cercare fortuna a Varadero già da tre anni. Mi raccontò di come era stato difficile entrare a far parte delle jinetere e, con molta diffidenza, mi raccontò qualche episodio delle sue passate esperienze. "Vedi -disse- il mio sogno è quello di potermene andare via da qui ma è difficile. Qualcuno deve farti un invito all'Ambasciata, con questo io posso chiedere il passaporto ed il visto d'uscita. Ma il turista mi deve comprare il biglietto aereo e a provvedere al mantenimento per tutta la durata del mio soggiorno all'estero...non è facile trovare qualcuno che si impegni in questo modo. Il mio rimarrà per sempre un sogno...vedere altre città, altre genti..Roma, Milano, Cuneo..". "Cuneo?" la interruppi. "C'è una grande discoteca. Me l' hanno detto degli amici italiani che sono stati a Varadero in primavera" aggiunse. Anche lei aveva il suo sogno formato da speranze, come tutti. Mentre io sognavo di vivere a Cuba, Fidelia sognava di vivere in Italia. "Guarda -cercai di spiegarle- l'Italia non è come credi...c'è molta gente senza lavoro, molta senza casa...c'è razzismo contro gli immigrati specie quelli di colore...c'è il traffico, la delinquenza..". "Mangiate tutti i giorni?" domandò candidamente. Lì finì il mio intervento. Era stata logica e lapidaria, avevo molte cose ancora da imparare, ma avevo ancora due giorni prima del mio rientro.

L'aeroporto di Varadero era pieno di turisti allegri. Tutti esibivano con fierezza, l'invidiabile abbronzatura dei tropici che contrastava con le magliette bianche o colorate, acquistate nei negozi dei vari alberghi. Per tutti, un souvenir, un ricordo, un acquisto: bottiglie di rum, cappellini di foglia di palma intrecciate, manifesti, scatole di sigari. Alcuni erano allacciati alla giovane sposa con la quale avevano celebrato la luna di miele tutto compreso; altri erano gruppetti di amici che stavano finendo di raccontarsi addosso aneddoti ed episodi di conquiste coronate dall'immancabile successo. In disparte vidi altre coppie: italiani con le loro fidanzate cubane, com'eravamo Fidelia ed io. Lei aveva insistito per accompagnarmi all'aeroporto. Con gli occhi umidi ed il groppo in gola, le coppie miste si stavano giurando amore eterno e promesse mentre si scambiano tenere effusioni. Con una lattina di Tropicola strette nelle mani, Fidelia si era accucciata su di una stretta panca ed osservava il mio daffare per le procedure di imbarco. Non avrei voluto partire ma la mia vacanza era davvero conclusa ed era giunta l'ora di ricatapultarmi nella mia realtà, fatta di pure preoccupazioni occidentali. Mi sedetti vicino a lei. "Mi mancherai" le sussurrai. "Ti  prego...scrivimi e telefonami. Io ti voglio bene e vorrei che tornassi presto" mi disse con un filo di voce. "Tranquilla -aggiunsi- al mio arrivo a Milano, cercherò di mettermi in contatto con te e provvederò a spedirti un pacco con tutte le cose che mia hai chiesto...Ma tu, non dimenticarmi" e così dicendo le misi in tasca gli ultimi dollari che mi erano rimasti, anche se sapevo che non era con quella manciata di soldi che avrei potute comprare il suo amore. Fidelia si mise a piangere sommessamente cercando di  trovare la sua dignità dentro un kleenex. L'altoparlante gracchiò qualcosa a proposito del volo in partenza per Milano, il mio tempo con lei era davvero finito. "Fidelia, io volevo dirti...si, insomma, mi mancherai...". Lei mi strinse forte e le sue labbra si incollarono alle mie per un ultimo tenero bacio di addio. Mestamente oltrepassai la dogana entrando nel settore riservato ai passeggeri in partenza. Lei era uscita dalla mia vista lasciandomi il ricordo dell'ultima immagine che era stampata nella mia memoria. Seguii silenziosamente un gruppo ciarliero e festoso che si avvicinava a piedi alla scaletta dell'aereo. Il sole stava scendendo tra i miseri palmizi che circondavano l'aerostazione e l'aria profumava di nostalgia. Fidelia si stava allontanando dalla mia vita.

 

 
1. VARADERO segui il romanzo

 

100 DOLLARI PER UN AMORE
 

 

 

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