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Tra guerre civili e resistenze. A 200 anni dall’indipendenza e a 100 dalla Rivoluzione

di Claudio Albertani

All’alba del 16 settembre 1810, Miguel Hidalgo e Costilla, parroco del paese di Dolores, lanciò l’appello che diede inizio al movimento per l’indipendenza del Messico. Duecento anni dopo, quel traguardo è ancora da raggiungere. Le fastose cerimonie di commemorazione - un dispendioso pasticcio senza contenuto storico e privo di sapore popolare - non hanno potuto nascondere la realtà di un paese assoggettato a varie dipendenze, scannato dalla violenza e immerso nella peggior crisi economica degli ultimi decenni. Un paese dove un gruppo di potere, rapace e irresponsabile, impone un modello di spoliazione sociale che ha precedenti solo nel Porfiriato. Ordine e progresso Nel corso del 1910, a ridosso del primo centenario dell’indipendenza, il giornalista nordamericano John Kenneth Turner pubblicò una serie di cronache pubblicate poi in un libro alla fine di quello stesso anno: “México bárbaro”. Inizialmente pubblicato in Inghilterra e poco dopo negli Stati Uniti. Turner non era un reporter qualunque, ma uno stretto collaboratore dei fratelli Flores Magón che lavoravano per una rivoluzione socialista e libertaria dall’esilio, negli USA. Fingendosi un rispettabile uomo d’affari Turner era riuscito a documentare la spaventosa situazione in cui si trovavano i lavoratori sotto il regime del dittatore Porfirio Díaz. Il risultato è una delle opere più devastanti mai scritte su di un paese, e nonostante che in Messico la pubblicazione sia avvenuta molto più tardi, provocò un grosso scandalo.  Come i governanti di oggi, Díaz era molto attento alla propria immagine all’estero. Il primo luglio era stato eletto presidente per l’ottava volta grazie a brogli elettorali, e cercava di convincere gli investitori che con il suo partito “Ordine e progresso” - non molto diverso da quello di Felipe Calderon che si chiama “Ordine e legalità” - il Messico si sarebbe trasformato in un prospero paese dove regnavano pace e stabilità sociale. Il tiranno aveva sperperato un’autentica fortuna nei festeggiamenti del Centenario dell’Indipendenza, culminati il 16 settembre con parate militari e cerimonie patriottiche. Voleva mostrare i suoi progressi modernizzatori. Più di venti chilometri di ferrovie, un’ampia rete telegrafica, linee telefoniche, luce elettrica e grandiose opere pubbliche come i fiammanti porti di Veracruz, Coatzacoalcos e Salina Cruz. I ricchi cittadini potevano acquistare costose mercanzie importate dall’Europa e dagli Stati Uniti nei centri commerciali “Il Palazzo di Ferro” e “Il Porto di Liverpool”. Ma Turner rivela l’esistenza di un altro Messico, un Messico feroce, dove imperava una disuguaglianza brutale, senza libertà politica né libertà di parola o di stampa, senza libere elezioni, senza un sistema giudiziario degno di questo nome, senza garanzie individuali e senza libertà per cercare la felicità; un paese dove il potere esecutivo governava grazie alla corruzione e un esercito onnipresente, dove i politici avevano un prezzo e i giudici si vendevano al miglior offerente. Gran parte della popolazione viveva in misere condizioni. Vere macchine divoratrici di vite umane, le fattorie erano diventate il modello dello sfruttamento in campagna. Gli schiavi maya dello Yucatan morivano più rapidamente di quanto nascevano, e i due terzi degli schiavi maquis importati da Sonora morivano nel primo anno dal loro arrivo nella regione. A Valle Nacional (Oaxaca) la situazione era pure peggiore: gli schiavi, eccetto pochi - forse il 5% - morivano entro sette, otto mesi. La situazione non era migliore nelle miniere e nelle fabbriche dove gli operai faticano per dodici o più ore, senza alcuna libertà, men che mai quella di sciopero. Turner non si limitava a fare l’inventario delle disgrazie nazionali: opinava che la schiavitù, il campesinato, la povertà, l’ignoranza e la generale prostrazione del popolo avevano una causa con nome cognome, si dovevano all’organizzazione economica e politica del paese, una forma di capitalismo particolarmente perversa e dannosa. Il libro concludeva con una profezia: il Messico era una polveriera che stava per scoppiare. La profezia si compì presto; nel 1917 scoppiò la rivoluzione con una violenza senza precedenti. Nel 1910 il paese aveva 15,2 milioni abitanti; nei dieci anni seguenti ci furono almeno un milione di morti (alcune fonti stimano due milioni di morti) e un milione di profughi negli Stati Uniti. Sono cifre terribili, pur in un secolo così caldo come il XX. Con quali risultati? “Un trionfo di carta”, secondo l’espressione di James Cockroft. L’articolo 1 della Costituzione proibiva la schiavitù; il 3 istituiva la scuola primaria pubblica, laica e gratuita; il 27 consacrava il diritto alla terra e permetteva le espropriazioni “per causa di pubblica utilità” aprendo la possibilità legale della restituzione delle comunità indigene; il 123 istituiva la giornata lavorativa di otto ore, il diritto di associazione, di sciopero e la proibizione del lavoro infantile. I costituenti sanzionavano la liquidazione del porfiriato e, timorosi di un altro incendio, facevano importanti concessioni ai movimenti popolari. Il sogno magonista di saldare le lotte comunitarie dei contadini indigeni - quegli uomini che “non volevano cambiare e per questo hanno fatto una rivoluzione”  - con le lotte degli operai industriali ed entrambe col movimento libertario internazionale è rimasta lettera morta. Presto la rivoluzione si è trasformata nella dittatura di un partito - la più lunga del XX secolo - finendo col ingrossare la lista delle rivoluzioni sconfitte. Il popolo non ha mai dimenticato del tutto i suoi sogni di emancipazione, ecco perché le numerose ribellioni armate che hanno insanguinato il Messico dopo la rivoluzione: il movimento cristero, l’insorgenza jaramillista, il Movimento 23 di settembre, il Partito dei Poveri, l’Unione Popolare, il Fronte Cívico Guerrerense, solo per nominare le più note. Le ultime espressioni di quella che si potrebbe definire la storia del Messico sotterraneo - l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale EZLN, in Chiapas, l’Esercito Popolare Rivoluzionario, EPR, e l’Esercito Rivoluzionario del Popolo Insorgente, ERPI, in quattro o cinque stati della Repubblica - sono una dimostrazione della persistenza di quadri guerriglieri attivi per generazioni e che si collegano alle lotte del presente. Montagne di denaro Come spiegare questa situazione in un paese che dal 1994 fa parte della OCDE, l’esclusivo club delle nazioni ricche? La risposta è semplice: il Messico feroce che Turner rivelò con tanta crudezza non ha mai smesso di esistere. La differenza è che ora, insieme ai poveri di sempre, troviamo degli individui straordinariamente potenti e influenti. In un’epoca caratterizzata da disuguaglianze laceranti, ci sono economie così polarizzate come quella messicana. Secondo i dati della Banca Mondiale, la decima parte dei messicani che sta al vertice della piramide sociale, monopolizza 430.597.200 miliardi di dollari, cioè il 41.3 % delle entrate nazionali, mentre la popolazione più povera riceve l’1,2%. Il Messico è la tredicesima economia del mondo, ma la numero 75 su 186 paesi rispetto alla capacità di acquisto dei suoi abitanti. Se immaginiamo il panorama sociale come una catena montuosa, sulla montagna più alta troviamo il magnate delle telecomunicazioni, Carlos Slim, che la rivista Forbes classifica come l’uomo più ricco del mondo. Vale 53 miliardi di dollari e vende il servizio di Internet più lento del pianeta. Molte migliaia di milioni più in basso, ma sempre nella lista, troviamo anche i re del duopolio televisivo, Emilio Azcárraga Jean, di TELEVISA, Ricardo Salinas Pliego, di TV Azteca, che si contendono il dubbio onore di addormentare il popolo e avvelenare il dibattito politico. La donna più ricca è María Asunción Aramburuzabala, padrona della Cervecería Modelo, la fabbrica della mondialmente nota (e transgenica) birra Corona. Lorenzo Zambrano, monarca del cemento (CEMEX), ha costruito la sua fortuna vendendo caro nel mercato messicano - dove gode quasi del monopolio - e a poco all’estero, dove deve lottare con la concorrenza. Jerónimo Arango, signore dei supermercati, è socio di Wal-Mart, il più grande leader mondiale nel taglio dei salari. Ha inventato un ingegnoso sistema d pagamento degli stipendi con buoni del supermercato che restaura i centri commerciali di lusso aboliti dalla rivoluzione. Il milionario più cercato è un narcotrafficante. Joaquín Guzmán Loera, capo del tristemente celebre cartello di Sinaloa, che con una fortuna calcolata sui 100 milioni di dollari, occupa un modesto 937 nella lista dei più ricchi, ma un vistoso 38 in quella dei potenti. Evaso da una prigione nel 2001 e segnalato come il narcotrafficante favorito dal Partito di Azione Nazionale (PAN) attualmente al potere. Originario della sierra di Badiraguato, Sinaloa, Guzmán Loera, di 54 anni, non ha finito le scuole elementari, ma è il protagonista di un mito nazionale: le canzoni scritte in suo onore, note come “narcocorridos”. Le banche sono quasi tutte consorzi transnazionali. Prendono interessi inauditi, pagano molto poco il risparmio e vendono carissimo i servizi procurandosi guadagni impensabili in altri paesi. L’agroindustria (Monsanto), l’acqua (VIVENDI) e l’energia (FENOSA, Iberdrola e Repsol) quest’ultima concessionaria della Cuenca de Burgos, uno dei maggiori giacimenti di gas naturale dell’America Latina, sono pure in mani straniere. Il bottino più iniquo è quello dell’industria petrolifera (PEMEX), legalmente proprietà della nazione, ma da un paio di decenni concessa all’iniziativa privata grazie ad inganni legali. C’é una novità: mentre in passato l’investimento estero proveniva da un solo paese, gli Stati Uniti, ora c’è anche la presenza - non meno vorace - del capitale europeo, in particolare spagnolo, il che dà un tono grottesco alla retorica bicentenario del governo e spiega perché il “socialista” Rodríguez Zapatero è stato uno dei primi a complimentarsi col “liberale” Felipe Calderón quando si è impadronito della presidenza con la frode, nel 2006. Le miniere meritano un discorso a parte. Si trova in gran parte accaparrata da imprese canadesi come la Minera San Xavier a San Luís Potosí, la Black Fire en Chicomuselo, Chiapas, e la Continuum, a San José del Progreso, Oaxaca. Tutte ostentano una nera storia di repressione dei lavoratori e contaminazione ambientale, ma la situazione non è migliore nel Grupo México, terzo produttore mondiale di rame, il cui presidente e azionista maggioritario è il messicano Germán Larrea. Tant’è che 65 lavoratori sono morti nel febbraio del 2006 per un’esplosione nata dalla negligenza dell’impresa nella miniera Pasta de Concho, Coahuila. Il tragico incidente ha scatenato una lotta per il recupero dei corpi e il miglioramento delle condizioni, lotta fallita. Nel giugno del 2010 c’è stato uno sciopero culminato in uno scontro aperto fino a quando, tra il 6 e il 7 la polizia ha sgomberato i lavoratori a Pasta de Concho e a Cananea, Sonora, quasi ad evocare i fatti di sangue del 1906 proprio a Cananea, considerati uno degli antecedenti della rivoluzione messicana. Lo scenario attuale è diverso, e qualcuno sta già pensando che l’industria mineraria stia attuando un esperimento d’ingegneria sociale. Gli apparati del potere fabbricano conflitti per favorire le miniere e mantenere il controllo sulla forza lavoro. “Il metodo è noto: fare in modo che le autorità assumano il comando della corporazione; spingere la divisione della comunità; cercare il miglior momento per montare una provocazione e stare pronti ad assassinare qualcuno perché la comunità resti indebolita, carica di accuse e con gente in carcere”. Se continuiamo con la nostra altimetria sociale, molto più in basso troviamo una classe media spremuta, sfinita e sempre pronta alla servitù volontaria. Al fondo dell’abisso, aggrappati ai margini delle metropoli, sui fianchi dei monti o nelle lande desertiche, giacciono i messicani che stanno male. Sono la maggioranza. Secondo i dati ufficiali, appena il 18% della popolazione totale (circa 105 milioni di abitanti) ha il reddito sufficiente per soddisfare i diritti sociali di base (alimentazione, abitazione, educazione e sanità). In cambio, 47.2 milioni di messicani vivono in povertà estrema e 35 milioni sono prossimi a questa condizione di carenze. Carenze che possono essere letali, come nel caso dell’incendio della Guardería ABC, capitato il 9 giugno 2009 a Hermosillo, Sonora, che ha fatto 49 bambini morti e 76 feriti. La causa? L’Istituto Messicano di Assistenza Sociale appalta ad aziende private l’amministrazione degli asili, e queste, in combutta con le autorità non fanno il dovuto per garantire le condizioni minime di sicurezza. Chi ne patisce? Di certo non i figli dei ricchi. La Commissione Economica per l’America Latina (Cepal), segnala che il Messico concentra il 18% di tutta la popolazione infantile dell’America Latina: 15.8 milioni di cui 4 milioni in povertà estrema. Eterna alleata del potere, la gerarchia cattolica benedice ce l’ingiustizia. Rincara le sue battaglie antiumane coprendo le infamie abominevoli dei suoi preti pederasti, denigrando gli omosessuali e conducendo un’appassionata crociata contro la depenalizzazione dell’aborto. Recentemente, il governo clericale di Guanajuato ha condannato a 15 anni di prigione 7 donne per “delitto di omicidio parentale”, cioè aborto. Fortunatamente, sono uscite tutte lo scorso 7 settembre grazia a una lunga lotta per la riforma del Codice Penale statale, che adesso impone “solo” pene da tre a otto anni per lo stesso delitto. Una delle donne liberate,Yolanda Martínez Montoya, è stata dietro le sbarre sette anni. “Non ci diamo per vinte. C’è molto da fare e da cambiare”, ha dichiarato uscendo dal carcere col pugno alzato.  Alla Chiesa e ai suoi speculatori bisogna urlargli in faccia le parole del prete Hidalgo: “Aprite gli occhi, americani, non lasciatevi sedurre dai nostri nemici, loro non sono cattolici, il loro dio è il denaro..”  Carente di legittimità, preso il trono nel 2006 grazie a uno sporco gioco mediatico e a una sfacciata manipolazione dei voti, il presidente Felipe Calderón (del PAN), ha rapidamente inventato una strana guerra contro il crimine organizzato ben sapendo che “la sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini” (Leonardo Sciascia). Questa guerra, che nell’attualità attira l’attenzione mondiale, si svolge fra cartelli della droga che si disputano il controllo del territorio e tra qualcuno di questi e lo Stato. Non ha ideologie ed eroi, ma secondo le cifre ufficiali, tra dicembre 2006 e oggi ha già fatto 28 mila morti. Quanti di loro sono innocenti? Senza alcun legame coi narcos? Non ci sono dati al riguardo ma sappiamo che l’esercito ha ucciso “accidentalmente” un bimbo monello, una famiglia disgraziata, un’automobilista imprudente. Dal 2000 a oggi sessanta giornalisti sono stati eliminati, undici dei quali solo quest’anno, e altri undici sono scomparsi. L’ultimo tragico incidente è la morte di Luis Carlos Santiago, un fotografo di 21 anni, ucciso da sicari il 19 settembre a Ciudad Juárez, Chihuahua. Lavorava per El Diario di Juárez che nel 2008 aveva già avuto l’assassinio di un impiegato, Armando Rodríguez Carrión, mentre il suo collega Jorge Luis Aguirre, ha chiesto e ottenuto asilo politico negli Stati uniti dopo aver ricevuto minacce.  Secondo l’Istituto Internazionale della Stampa, con sede in Austria, il Messico è il paese più pericoloso del mondo per il mestiere di giornalista. Usando il linguaggio orwelliano che Bush usò in Iraq e che continua a usare Obama in Afganistan, Calderón parla di “danni collaterali”. Oggi, 96.000 militari pattugliano le strade del Messico con la scusa della guerra ai cartelli della droga. Serve a qualcosa? No. La guerra di Calderón non è credibile perché i cartelli della droga contano sulla complicità della polizia, di ufficiali dell’esercito, uomini dei corpi speciali, non più in servizio e ancora attivi. L’Intelligence rivela che il 62% degli agenti di polizia sono controllati dal narcotraffico e che ogni mese ricevono 70 mila pesos (circa 3.500 Euro). La rivista Contralínea segnala che tra dicembre 2006 e febbraio 2010, sono state emesse 735 sentenze per delinquenza organizzata. Si tratta dello 0.6 % delle 121.199 persone detenute nello stesso periodo per presunti vincoli col crimine organizzato. E gli altri? Sono innocenti o possono far intervenire la complicità di qualche autorità per essere liberati. Il delitto più grave è essere poveri, e il castigo prevede il carcere, la tortura, la scomparsa e l’assassinio. Dietro la guerra al narcotraffico si nasconde un’altra guerra, la guerra dello Stato contro la società che ritorna dagli anni settanta, quando centinaia di messicani furono eliminati dai corpi di polizia. Una recente indagine giornalistica segnala che tra dicembre 2006 e oggi ci sono stati circa 3.000 persone scomparse per motivi politici, tratta di persone e lotta al narcotraffico. La data che segna il ritorno della guerra sporca è il 25 maggio 2007, quando due dirigenti del EPR, Raymundo Rivera Bravo e Edmundo Reyes Amaya, sono stati arrestati a Oaxaca e da allora sono scomparsi. Qual è la base sociale del crimine organizzato? In Messico ci sono sette milioni e mezzo di giovani che non lavorano e non studiano. Hanno un sogno: uscire dalla miseria. Alcuni mettono le loro speranze in entità sovrannaturali come la Santa Muerte, uno scheletro che distribuisce miracoli a Tepito, il peggior quartiere di Città del Messico. D’altra parte, il narcotraffico produce introiti equivalenti a 40 miliardi di dollari l’anno (di cui circa il 70% ritorna nell’economia formale), quasi pari alle rimesse degli emigrati, più il totale delle esportazioni petrolifere. E’ l’unico settore in cui il lavoro abbonda, perché il Messico non è solo un paese di transito della droga ma pure un grosso centro di consumo (cocaina al primo posto, ma anche oppiacei, anfetamine, estasi e le nuove droghe sintetiche). Il recente film “Infierno” capta benissimo l’orrenda fascinazione che il mondo del narcotraffico esercita sulla gioventù. Un emigrante, Benjamín García, ritorna al suo paese dopo essere stato deportato negli Stati Uniti. Arriva con tante illusioni, ma di fronte ad un panorama desolante entra in una banda di narcotrafficante e ottiene, per la prima volta, una raggiante, per quanto effimera, prosperità. Il finale è tragico e il messaggio chiarissimo: il crimine organizzato è sempre esistito, ma ora si sovrappone a una classe politica cinica e a una crisi economica devastante, creando un clima apocalittico. L’altra possibilità è emigrare. Quanti disgraziati muoiono provando a forzare la frontiera al nord? Le fonti sono discordanti, di certo si sa solo che sono migliaia ogni anno. Pur così, le politiche migratorie statunitensi - la malfamata legge SB1070 dell’Arizona che criminalizza gli immigrati senza documenti e la costruzione del muro della vergogna lungo la frontiera - non riescono a impedire il flusso migratorio, perché la pressione è enorme. Quello che ottengono è che i migranti cerchino forme sempre più rischiose per varcare la linea, cadendo nelle mani di mafie sempre più assassine. Negli ultimi anni si è assistito alla moltiplicazione degli assassini di migranti, specialmente donne, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Messico. Molti non sono messicani, sono giovani di centro e Sudamerica in cerca dello stesso sogno. A Ciudad Juárez, posto di transito verso gli USA, sono stati registrati 7.649 omicidi di donne dal 1993. A chi appartengono le mani assassine che hanno troncato le loro vite? Nessuno lo sa con certezza, anche se la complicità delle autorità locali, statali e federali non è certo un segreto. Il più recente e obbrobrioso crimine contro i migranti si è verificato il 24 agosto scorso, quando 72 persone (58 uomini e 14 donne; il peggior massacro in Messico dal 1968) che stavano andando verso gli Stati Uniti sono stati brutalmente assassinati a San Fernando, Tamaulipas, da pistoleri appartenenti agli Zeta, un cartello particolarmente truculento che si occupa di narcotraffico e tratta di persone. Il motivo? Non avevano pagato il riscatto. Il sequestro - bisogna ricordarlo - è un affare prospero nel Messico del bicentenario. Secondo il presidente della Commissione Nazionale per i Diritti Umani (CNDH), Raúl Plascencia Villanueva, nel primo semestre del 2010 ci sono stati 10 mila casi solo fra i migranti. Mentre capita tutto ciò, è curioso notare che l’agenzia internazionale d’investimento Morgan Stanley eleva la sua considerazione per il Messico da “interessante” a “molto interessante”. Cioè, il paese è in rovina, ma gli affari vanno bene. Anni fa - da quel memorabile 1° gennaio 1994 - giorno della ribellione indigena del Chiapas, fino alla meno gloriosa insurrezione guidata dall’Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca, APPO (2006) - il Messico non è stato solo un paese di laceranti ingiustizie, ma anche un laboratorio sociale e politico d’importanza internazionale. Oggi, i movimenti sociali si trovano malconci, ma non sottomessi. Prima del naufragio dell’altra Campagna - che nel 2006 ha cercato senza successo un’alternativa elettorale ai grandi problemi nazionali - le comunità raggruppate nell’EZLN sono ripiegate nei loro territori montagnosi del sudovest e lì continuano, nonostante la guerra sporca che il governo non ha mai smesso di condurre contro di loro. Organizzate nei Caracoles o Giunte del buon governo, rafforzano la loro autonomia, applicano progetti produttivi e migliorano i sistemi alternativi di educazione e sanità. Il prolungato silenzio del subcomandante Marcos non deve ingannare; evidentemente è finito il suo ruolo di portavoce dell’EZLN e le comunità ribelli hanno assunto un controllo più diretto dei loro problemi interni. E’ una giusta decisione nella situazione attuale. E’ vero che la sua presenza nazionale e internazionale è minore, ma ciò che fanno è un esempio di lotta libertaria, specie per quei 15 milioni d’indigeni che, in posti diversi, rimangono esposti al pericolo di etnocidio silenzioso, quando non direttamente allo sterminio fisico. San Juan Copala, una comunità triqui di Oaxaca, si è trasformata nella succursale latinoamericana della Striscia di Gaza. Perché? Perché i suoi abitanti hanno commesso il doppio crimine di lottare contro i caciques affiliati all’Unione del Benessere Sociale della Regione Triqui (UBISORT), -dipendenza locale del Partido Revolucionario Institucional, il partito che monopolizza il potere federale fino al 2000 e ha perso le elezioni statali - e di proclamarsi autonomo. La risposta del governatore Ulises Ruiz, il malfamato autore della repressione del movimento del 2006, è stato efficace: promuovere e sostenere gruppi di paramilitari armati fino ai denti che mantengono accerchiato il paese, tagliano l’energia elettrica, chiudono scuole e i servizi sanitari in totale impunità. Non soddisfatti, uccidono vilmente 15 persone nel corso di quest’anno (tra loro due attivisti umanitari Beatriz Cariño e Jyri Jaakkola) e violentano un numero imprecisato d donne. Adesso impediscono l’entrata di viveri e acqua e la circolazione delle persone. Il 13 settembre, mentre i riflettori si concentravano sulla festa nazionale, si sono impadroniti del palazzo municipale minacciando di massacrare tutti gli autonomisti se non avessero abbandonato la regione a breve. Il giorno 18 hanno ucciso due comunardi, Paulino Ramírez y David García Ramírez, e fatto sparire Eugenio Martínez López. Questa situazione non è esclusiva di Oaxaca. Scenari simili si riproducono anche nel Chiapas, Veracruz, Puebla, Nayarit, Jalisco, Guerrero e Michoacán, Stati governati dal Partido de la Revolución Democrática (PRD) che si definisce di sinistra. A Xochistlahuaca, Guerrero, il popolo amuzgo lotta contro caciques protetti dal governatore perredista Zeferino Torreblanca e Radio Ñomndaa (la voce dell’acqua), un’emittente che da voce ai popoli indigeni della regione, vive in stato d’assedio permanente. A Santa María Ostula, popolo nahua della costa michoacana, i comunardi hanno pubblicato nel giugno 2009 un manifesto di portata storica che rivendica il diritto dei popoli indios a difendere la propria vita, la libertà, la cultura e la terra. Azione seguente, hanno ricuperato più di 700 ettari di proprietà comunale illegalmente occupata da caciques meticci. Da allora, vivono braccati da esercito, polizia e gruppi d’assalto. Ci sono già stati otto comunardi assassinati e altri tre scomparsi. A Città del Messico, che la sinistra governa dal 1997, la repressione si dirige principalmente contro giovani dei collettivi libertari e anarcopunks, che negli ultimi anni si sono moltiplicati e sono percepiti come un pericolo per l’attuale capo del governo, Marcelo Ebrard. Con la collaborazione dell’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, applica il piano “Tolleranza Zero”, il che implica che adesso i giovani sono considerati colpevoli fino a quando non dimostrano la loro innocenza. L’irresponsabilità poliziesca è notevole. Nel giugno 2008 un agente di polizia di servizio nella discoteca News Divine, ha fatto 11 morti, tre poliziotti e nove ragazzi minorenni. Molti attivisti che protestano sono arrestati per l’unico delitto di trovarsi nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, e per non avere il denaro per comprare la giustizia. Oggi ci sono 5 giovani anarchici detenuti nelle carceri del Distretto Federale. Sono: Abraham López Martínez, Fermín Gómez Trejo e Carlos de Silva Orozco, incarcerati dal 15 dicembre del 2009 per aver lanciato delle molotov su automobili; Adrián Magdaleno, accusato fabbricazione di esplosivi artigianali all’interno di un vagone della metropolitana; Víctor Herrera Govea, studente incarcerato per aver esercitato il suo diritto a protestare contro la repressione nella marcia del 2 ottobre del 2009.  La spoliazione sociale viaggia alla pari della catastrofe ambientale. Da molto tempo, la deforestazione fa stragi nel mondo intero, ma in particolare del mondo, dove alimenta un ciclo infernale di calamità “naturali” dove le siccità si alternano alle inondazioni. Da un alto avanza la desertificazione, dall’altro ogni volta che piove più del normale, franano monti, esondano torrenti e sommergono città intere (l’ultimo nubifragio ha fatto un milione di danni solo nello stato di Veracruz). Per colmo, il governo federale fomenta un Programma di Riduzione dell’Emissione per Deforestazione e Degrado dei Boschi (REDD) in cui aziende altamente nocive comprano e vendono legalmente il diritto a contaminare col sotterfugio che s’impegnano a rimboschire in altre zone del mondo.  Questi gravissimi problemi ambientali si acutizzano di fronte a megaprogetti turistici che divorano risorse naturali e rinverdisono la schiavitù di porfiriana memoria: privatizzazioni dei servizi idrici in intere bioregioni; costruzioni di canalizzazioni che deviano fiumi e distruggono microclimi (La Parota, Guerrero; Paso de la Reyna, Oaxaca; El Zapotillo e Arcediano, Jalisco; El Cajón, Nayari); parchi eolici che fanno tabula rasa della fauna e divorano terre comunali (La Ventosa, Oaxaca); discariche cielo aperto che inquinano coltivazioni e falde acquifere (Tlaquiltenango, Morelos Tulum, Quintana Roo, Guadalcazar, San Luis Potosí e Tlaxcala); piantagioni transgeniche che avvelenano la madre terra. Sono tutti affari succulenti, ma possono trasformarsi in fattori di rivolta come dimostra il moltiplicarsi di movimenti in difesa dell’acqua, della terra, dell’aria, la biodiversità, gli alimenti e la sanità. Alcuni si accorpano nell’Assemblea Nazionale delle Vittime Ambientale che coordina e da visibilità alle loro lotte. La risposta del governo è quella di sempre: incarcerare o assassinare militanti ambientalisti, e col pretesto di combattere il crimine organizzato, militarizzare regioni intere. Anche le fabbriche non sono in pace. L’offensiva antilavorativa del governo panista è tremenda tutti i giorni viene a mancare una fonte di lavoro, un sindacato o un contatto. Lotta eroica – e in buona parte solitaria – dei lavoratori del Sindacato Messicano degli Elettricisti – uno di quelli più antichi del paese, che vuole difendere il posto di lavoro in Luz y Fuerza del Centro, industria pubblica, chiusa illegalmente dal governo federale. Oggi il Messico presenta un concentrato di tutte le avversità che gravano sul pianeta: totalitarismo economico, devastazione ambientale, una polarizzazione sociale oscena, partiti “canaglia” che si contendono il potere per arricchirsi, televisioni che mettono e tolgono dal potere, mafie sanguinarie che corrompono il tessuto sociale. Sarebbe avventato, pertanto, concludere rinnovando la profezia di John Kenneth Turner sull’imminenza di una rivoluzione redentrice o scommettendo sul rinnovamento centenario del metabolismo politico: 1810, 1910, 2010.  La nostra storia, comunque, non finisce qui. “L stadio supremo della produzione mercantile e il progetto della sua totale negazione, altrettanto ricco di contraddizioni, stanno crescendo insieme”, ha scritto Guy Debord. Il Messico ha uno zoccolo duro e una dialettica vitale, anche se per molti incomprensibile, proprio quello che ci vuole per affrontare l’occhio del ciclone. Ricordiamoci le parole di B. Traven: “Siamo l’aurora. Il nostro continente deciderà il segno del prossimo millennio; qui si prepara la culla di una nuova cultura. E nascerà un Messico, perché è qui che si sperimentano i dolori del parto”. E quest’aurora non smette di albeggiare. Rimane poco tempo.


 

Il sangue dei narcos. Messico: la “guerra della droga” ha già provocato 30mila morti in quattro anni.

 

di ANDREA NECCIAI

 

 

Nel 2001, il Segretario di Stato Usa, Colin Powell, a proposito della lotta al narcotraffico in America latina dovette riconoscere che il problema della droga, che da decenni affligge la regione, non è endemico, bensì “dipende da ciò che succede nelle strade di New York e nelle vie di tutte le nostre grandi città”. In altre parole, il narcotraffico nell’area latinoamericana cresce e si alimenta grazie alla domanda di stupefacenti che proviene, prevalentemente, dagli Stati Uniti. In Messico dopo l’adozione del Plan Mérida, che prevede aiuti economici per 350 milioni di dollari all’anno, il governo panista di Felipe Calderón aveva cominciato una vera e propria guerra contro i cartelli della droga, mobilitando migliaia di soldati tra effettivi dell’esercito, della marina militare e della polizia federale. A distanza di qualche anno, i “risultati” raggiunti sono ora sotto gli occhi di tutti: i massacri all’ordine del giorno, le operazioni di polizia anticrimine degenerate in guerra civile e il Paese trasformato in un gigantesco, orrendo, mattatoio. In teoria, e secondo gli accordi presi con i vicini nordamericani, la guerra ai narcotrafficanti avrebbe dovuto impedire alla droga proveniente dal Sudamerica di fare il suo ingresso in Messico, attraverso la frontiera con Guatemala e Belize, per poi essere smistata verso gli Stati Uniti. Ma nei fatti, l’offensiva poliziesco-militare non ha prodotto alcun effetto positivo. Anzi, nel sud del Messico regna incontrastata la famigerata banda dei “Los Zetas” che si arricchisce, oltre che con la droga, anche con il traffico dei migranti centroamericani, in cerca di fortuna al nord, sfruttando questo enorme serbatoio di mano d’opera a buon mercato nella prostituzione e nella schiavitù del lavoro nei campi.

Secondo molti analisti, i fautori di questa guerra inutile, il presidente Calderón e i suoi mèntori nordamericani, continuano ad ignorare - o forse fanno finta di non sapere - che per affrontare opportunamente la questione narcotraffico si dovrebbe tener conto, anzitutto, di tre fattori fondamentali. E tutti e tre riconducibili alla medesima matrice.

In primo luogo, la maggiore richiesta di stupefacenti proviene dalla stessa nazione che più si impegna a combattere la proliferazione del narcotraffico in tutta l’America latina. Negli Stati Uniti, infatti, vivono milioni di consumatori di droga che si servono di un terzo di tutta la cocaina prodotta nel mondo: un giro d’affari gigantesco che fa gola un po’ a tutti, coinvolgendo anche le banche statunitensi. Dalla XII Conferenza Internazionale sul Riciclaggio è emerso che gli istituti di credito Usa, solo nell’ultimo decennio, avrebbero accolto nei loro caveaux tra i 2,5 ed i 5 trilioni di dollari, frutto di attività illecite come - appunto - il narcotraffico.  Dunque, meglio farebbero le autorità statunitensi a concentrarsi di più sugli aspetti legati alla prevenzione del fenomeno (magari investendo più risorse in programmi sociali per limitare il consumo di droghe nella popolazione), anziché insistere unicamente sul versante della repressione manu militari.  In secondo luogo, dagli Stati Uniti arrivano anche le armi per i cartelli messicani, grazie ad una fitta rete di “collaboratori”, tra funzionari di frontiera compiacenti e poliziotti corrotti, e alle protezioni a livello politico-imprenditoriale di cui godono gli stessi narcos.

Ed infine, andrebbero esaminate più a fondo alcune tra le più disastrose conseguenze del NAFTA, lo sciagurato accordo di libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico, entrato in vigore a fine anni ’90. Il NAFTA, oltre a provocare l’impoverimento progressivo di intere masse di popolazione, ha costretto milioni di contadini svantaggiati ad abbandonare per sempre le loro terre, oppure a dedicarsi a coltivazioni più redditizie, passando dal mais all’oppio (e/o alla marijuana). Ciò risulta pure da un recente dossier pubblicato dal periodico “La Jornada”, che denuncia la presenza nel nord del Messico di grandi latifondi coltivati ad oppiacei, molti dei quali sono addirittura sorvegliati dai militari. Secondo le stime più ottimistiche, un quarto di tutta l’economia messicana sarebbe già nelle mani dei narcos.

 

Per molti Paesi dell’America latina, decidere di adottare la strategia nordamericana di contrasto al narcotraffico, con i suoi metodi repressivi, significa esporsi sempre di più all’ingerenza della Casa Bianca nei propri affari interni, con il rischio di cadere - o ricadere - sotto il suo controllo militare, economico e politico. Come nel caso messicano, in cui la sovranità del Paese è stata consegnata agli Stati Uniti in cambio dell’adozione di una politica antidroga cinica e spietata. Ed è ovvio che dietro il paravento della lotta al crimine organizzato si nascondono soprattutto ingenti interessi economici. Così, mentre il sangue di tanti messicani scorre a fiotti nelle strade, pochi privilegiati si ingrassano con i lauti profitti della “narcoguerra”.


I parlamentari messicani e statunitensi condannano gli omicidi alla frontiera

di Félix Albisu

PL – Parlamentari messicani e statunitensi che hanno partecipato alla XLIX Riunione Interparlamentare binazionale in Messico, hanno condannato gli omicidi commessi dagli agenti statunitensi della pattuglia di frontiera. I parlamentari di uno e dell’altro paese hanno chiesto ai rispettivi governi di non lasciare impuni le morti dei messicani Sergio A. Hernández e Anastasio Hernández avvenute in territorio statunitense in prossimità della frontiera. I membri dell’incontro annuale interparlamentare di Campeche nella penisola dello Yucatan, hanno osservato un minuto di silenzio nella sessione di sabato in onore ai caduti di entrambi gli stati, e hanno chiesto la realizzazione di indagini pertinenti e l’applicazione della giustizia. Allo stesso tempo, senatori, deputati e congressisti di entrambe le nazioni hanno trasmesso un messaggio di condoglianza per le morti tragiche ai famigliari del giovane Hernández Rojas e di Hernández Güereca in azioni anti-immigratorie registrate nella parte statunitense della frontiera. Cristhoper Dodd, co-presidente della delegazione del Congresso degli Stati Uniti ha detto che simili incidenti, come molti altri che si erano già verificati al confine, indicano che è necessario che il Messico e Washington continuino a cooperare per risolvere tutti i problemi migratori.  Ha poi aggiunto che è necessario conoscere i fatti completi per applicare la giustizia e salvare vite innocenti, e per evitare tragedie simili nel futuro. Il senatore democratico si è impegnato a far consegnare da parte del governo degli Stati Uniti i risultati delle indagini corrispondenti alle due morti nei prossimi sei o sette mesi.  Mentre si portavano avanti i lavori nella capitale dello stato nel sud-est messicano, un gruppo di circa 60 attivisti e militanti del partito Convergencia hanno realizzato un atto di protesta e hanno cercato di entrare nel Centro delle Convenzioni secolo XXI, dove aveva luogo l’appuntamento. Nello stesso incontro, il presidente della Camera dei Deputati del Messico, Francisco Ramírez Acuña, del Partito di governo Azione Nazionale, ha attribuito tali azioni di violenza degli agenti di frontiera degli Stati Uniti alla pressione causata dalla legge SB 1070 dell’Arizona.


MESSICO: rinasce l'MLN - Movimento di Liberazione Nazionale Al via il Congresso Costitutivo del Movimento di Liberazione Nazionale. -
 

Dall'elezione del presidente Felipe Calderon, in Messico si accumulano tensioni sociali e politiche che rischiano di portare a un'esplosione. Il 1 settembre scorso, un fiume di persone ha affollato le strade del Messico, per uno sciopero Civile nazionale che è stato un insieme di azioni di protesta simultanee, pacifiche e massive in tutto il Paese.

Anche se non appartiene ai temi di attualità scottante scelti dai grandi media per agitare preoccupazioni o giustificare politiche interventiste, la situazione che vive in questi ultimi anni il Messico è così grave da configurare secondo molti un vero e proprio conflitto interno. Dall’elezione di Felipe Calderòn–per la quale movimenti sociali messicani e osservatori internazionali hanno gridato alla frode–l’offensiva delle multinazionali, il conflitto sociale e la repressione feroce delle opposizioni sono divenuti più aspri e cruenti che mai.

Calderòn ha implementato, seguendo le orme del predecessore Fox, una strategia economica espansiva di costruzione di mega infrastrutture, favorendo gli investimenti privati e la penetrazione delle imprese nei territori rurali. La progressiva e totale liberalizzazione dei mercati – che per Calderòn equivale a produrre crescita economica e quindi sviluppo sociale – ha causato però nella realtà un aumento della povertà e delle disuguaglianze.
 

Come conseguenza dell’imposizione di politiche estrattive o produttive, della privatizzazione dei beni di base e dei servizi sociali, dello sfollamento di intere comunità per fare posto a stabilimenti industriali e della metodica spoliazione delle risorse naturali, l’opposizione popolare è cresciuta enormemente, aggravando il conflitto sociale che caratterizza da decenni il paese.
 

La dismissione delle fabbriche maquiladoras nella zona di confine con gli Stati Uniti ha causato una emorragia di migranti verso gli Stati Uniti. Contemporaneamente, l’abbandono delle campagne da parte delle comunità rurali, l’affollamento delle città, la privatizzazione dei servizi di base, dell’acqua, delle case ha portato ad un sensibile peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone e ad un aumento delle mobilitazioni popolari in difesa dei propri diritti.
 

Come conseguenza di questa fase di rinnovata conflittualità sociale, le comunità e i movimenti sociali del Messico
stanno denunciando da mesi una escalation di violenza provocata dalle forze pubbliche.

Il 1 settembre scorso, un fiume di persone ha affollato le strade del Messico, per uno sciopero Civile nazionale che è stato un insieme di azioni di protesta simultanee, pacifiche e massive in tutto il Paese.
 

Lo scopo è stato quello di sensibilizzare l'opinione pubblica nazionale ed internazionale sulla scontentezza del popolo messicano nei confronti degli strumenti neoliberali del regime capeggiato da Felipe Calderón, tra i cui ci sono la privatizzazione del petrolio, la riforma della Legge dell'ISSSTE, il Trattato di Libero Commercio, la Riforma Lavorativa, la Riforma del Codice Penale, l'innalzamento dei prezzi, la violazione dell'autonomia sindacale, la mancanza della democrazia e la repressione nei confronti delle giuste lotte dei lavoratori e del popolo.
 

Per sedare le manifestazioni di protesta il governo sceglie da tempo la via della repressione, rifiutando ogni forma di dialogo. Già da alcuni anni a questa parte molti analisti hanno parlato di una «colombianizzazione» della situazione messicana, caratterizzata da un intervento sempre maggiore della presenza militare nella vita civile utilizzando pretesti come la lotta al narcotraffico o al terrorismo.
 

Il Plan México, finanziato dagli Stati Uniti per combattere teoricamente il narcotraffico, è utilizzato come scusa per militarizzare ulteriormente il paese soprattutto nelle zone dove il conflitto sociale è più forte.
 

Secondo la rete di azione messicana contro il libero commercio « la criminalizzazione della lotta sociale è una strategia statale che non implica solo un utilizzo distorto delle leggi al fine di detenere e condannare con pene esemplari coloro che si oppongono ad un modello di sfruttamento, ma anche la progressiva identificazione della lotta sociale come attività delinquenziale, addirittura terroristica. In tutto il Messico sono moltissimi gli esempi di resistenza contro le politiche promosse dal governo, e non passa giorno che non vengano uccise per mano delle forze armate 10-15 persone, la maggior parte delle quali impegnate in azioni di difesa del territorio e dei diritti della popolazione».
 

Per unire tutte le vertenze territoriali e le istanze legittime portate avanti da comunità, sindacati, associazioni, movimenti sociali e forze politiche, il 13 settembre si celebrerà il Congresso Costitutivo dall'MLN, un movimento nazionale di liberazione, di zapatiana memoria, che vuole porsi come progetto unitario verso la costruzione di un futuro diverso per il popolo messicano.

 

MLN - Giunta Organizzativa del Congresso

Organizzazioni Nazionali
Frente Popular Francisco Villa
Movimiento Nacional Organizado “Aquí Estamos”
Frente Popular Revolucionario
Partido Comunista de México Marxista Leninista
Partido Popular Socialista de México
Unión Popular de Vendedores Ambulantes 28 de Octubre
Organizzazioni Locali
Sección XVIII SNTE-CNTE
Alianza de Tranviarios de México
Movimiento Democrático de Zacatecas
Organización Obrero Campesina Emiliano Zapata (Oaxaca)
Organización Campesina Emiliano Zapata (Chiapas)
Organización Proletaria Emiliano Zapata (Chiapas)
12 etnias (Chiapas)
MCD (Chiapas)
UGOCP (Chiapas)
Unión popular Independiente Coahuila
Trabajadores de la educación Morelos
Trabajadores de la educación Sección 36 Valle de México
Trabajadores de la educación DF
Colectivo Sur
Colectivo SUTIN
Comité de Defensa de Colonos de Tultitlán
Consejo Coordinador Obrero Popular-Durango
Colectivo Monterrey
MLN Guerrero
Ediciones del Poder Popular
MLN Morelos
El Pregón DF
El Pregón Morelos
Unión de Juristas de México
Organizzazioni in via di coinvolgimento
Trabajadores de la educación de: Baja California Norte
California Sur, Jalisco, Querétaro, Aguas Calientes, San Luís Potosí, Guanajuato, Tlaxcala
Calpulli Tlahtoani
Frente de Pueblos en Defensa de
la Tierra
Colectivo
Situam
SNTSS Unidad Sindical

 

 

 

info@siporcuba.it

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